Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.
Nel 2014 il Guardian chiese a dieci poeti europei di raccontare in versi il loro paese natale. «Chiaramente questo non è un continente che soffre di strabordante fiducia in se stesso; anzi, al contrario», commentò ironicamente il giornalista britannico. «Se, in stile Eurovision, non potessimo votare il nostro pluripremiato Don Paterson, dovremmo premiare il kosovaro Shpëtim Selmani, per il suo spettacolare esercizio di conciso pessimismo».
Questi erano i suoi quattro versi: “On the first day blood was created / on the second day death / on the third love was mentioned / and then there were no days left for us” (“Il primo giorno è stato creato il sangue / il secondo giorno la morte / il terzo è stato menzionato l’amore / e poi non sono rimasti più giorni per noi”).
Sei anni dopo Shpëtim Selmani ha ricevuto il Premio dell’Unione europea per la letteratura per il suo “Libërthi i dashurisë” (L’opuscolo dell’amore), definito dalla giuria “una novità nella prosa albanese” e non ancora tradotto in italiano.
Nato a Pristina nel 1986, oltre a essere poeta e scrittore, Selmani è attore di teatro e cinema: «In questa vita terribile, l’ispirazione poetica è qualcosa di bellissimo e non viene molto spesso», racconta, «ma essa non è tutto e non si può vivere in sua attesa. Anche il lavoro che la sostiene è centrale. Fare l’attore mi ha aiutato a capire questo».
Il suo libro è una lunga riflessione che, partendo dalla routine quotidiana, tocca il mondano e lo spirituale, le ideologie e la letteratura. Tra tutte, un’idea getta una luce diversa sulle altre: quella di diventare genitore. Cosa significherà dare un nome a un figlio e poi per la prima volta pronunciare quel nome?
«Il libro parla di me, di mio figlio e di mia moglie. Nello stesso periodo in cui ho perso mio padre ho anche scoperto che sarei diventato padre», spiega Selmani. «“Libërthi i dashurisë” è un insieme di frammenti che raccontano questo e il nostro ruolo in una società che è sempre in transizione e in lotta con la possibilità di essere liberi».
La giuria ha associato questa “composizione ibrida di diversi generi” al “romanzo-costellazione” della Premio Nobel polacca Olga Tokarczuk. Il monologo frammentario di Selmani fa collidere le frivolezze quotidiane con le grandi domande: come si concilia la libertà dell’individuo con le sue responsabilità collettive? Si può crescere senza macchiarsi di colpe? Solo i bambini sono senza macchia?
La sua identità kosovara è frammentaria come il suo romanzo? «Sono un albanese del Kosovo», risponde. «Quando vado in Serbia sono un šiptar, il termine offensivo con cui alcuni serbi chiamano gli albanesi. Quando vado in Europa vengo dai sanguinosi Balcani. Quando vado in America sono europeo. Quando vado su Marte vengo dalla Terra. In questi giorni sento di essere George Floyd. Allen Ginsberg ha detto che l’uomo ha molte identità: io contengo molte identità».
Una delle molte identità di Shpëtim Selmani, che fa capolino negli occhiali tondi e nei capelli neri scarmigliati, è anche quella del poeta statunitense. «La Beat Generation è stata la mia luce per molto tempo», conferma lui, «ma oggi mi sento più vicino al movimento infrarealista di Roberto Bolaño».
(Rina Krasniqi)
Da un lato ha ricevuto il premio dell’Unione europea per la sua opera, dall’altro vive in un paese – il Kosovo – che non è ancora riconosciuto da tutti gli Stati, non fa parte dell’Unione, e per cui ancora non si vede una data di ingresso. Il processo di allargamento dell’Unione nei Balcani, anzi, ha rallentato negli ultimi anni.
«La maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea ha riconosciuto il Kosovo», risponde. «So che abbiamo molti problemi con i nostri politici, in Kosovo ma anche in Europa. Ma io non sono un politico, sono un figlio della guerra: avevo dodici anni quando successe. La mia prova umana è stata al di là della politica».
«L’Europa per noi oggi è come un nuovo Stato, è ciò che una volta era l’America: un sogno. E la cultura europea è sempre la mia direzione. Abbiamo una straordinaria scena culturale, che è in attesa di esprimersi sulla scena europea e scambiarsi le idee. La première del film “The Flying Circus” del fantastico Fatos Berisha, in cui ho recitato, per fare un esempio, è stata in Estonia, a Tallinn».
«Ma dovete aprirci le porte. Siamo ancora isolati per una questione solo politica e siamo stanchi di questo mostro chiamato “politica”. Spero di poter entrare molto presto nella casa europea, ma neppure la liberalizzazione dei visti che attendavamo è ancora avvenuta. Tutto per una questione di politica, affari e pregiudizi che a volte sembrano prossimi al razzismo».
Che tipo di pregiudizi? «Mi sono esibito in molti Stati europei e a volte posso sentire il pregiudizio europeo nei nostri confronti. Ricordo, per esempio, quando la madre della mia ex ragazza svedese si stupì del fatto che leggessi Philip Roth. “Lo conosci davvero?”, mi chiese».
Nonostante questo, si sente a casa in Europa? «Ho perso la mia verginità nel cuore dell’Europa, in Germania. Amo le piccole città europee, la provincia francese con i suoi formaggi, le fattorie in Toscana con il loro buon vino, la natura meravigliosa, quei vecchi che lavorano nei vostri “pub”. In Europa non hai bisogno di morire e andare in paradiso. È già lì la pace».
«Il mio amico Antoine Jaccoud dice che è felice quando osserva un albero solitario o una strada vuota. Sembrerei patetico se dicessi che sento miei tutti i posti nel mondo, ma è così. E allo stesso modo, quando gli europei vengono in Kosovo e bevono la nostra rakia a buon prezzo, sono felici. Ed è incredibile: siamo uguali».
A parte il citato Philip Roth, quali sono i suoi riferimenti letterari? «Ho letto molto, tutte le letterature di tutti i continenti. Mi sento molto vicino a Michel Houellebecq. È un autore pieno di scandali e paradossi, ma credo sia un genio. Mi piace la sua visione della vita. Il suo pessimismo ha un forte legame con questi tempi in cui il mondo è pieno di dispiaceri e le persone sono alla ricerca dei loro ruoli in una realtà satura di tecnica piena di terrore».
Cosa sta leggendo? «Durante la pandemia ho letto “La pelle” di Curzio Malaparte. Fa un’ottima descrizione del concetto di pelle come confine. E mi ha fatto riflettere sul rapporto tra scrittori e potere e sulle opinioni pubbliche espresse dagli scrittori. Da loro non posso accettare cattive ideologie. Quindi è stata una lezione per me. Come posso leggere Handke, per esempio, se sul massacro di Srebrenica dice falsità?».
Ci sono autori o artisti kosovari che dovremmo conoscere? «Jeton Neziraj è bravo, i suoi spettacoli teatrali sono sui palcoscenici di tutta Europa. Anche Arben Idrizi, che ha tradotto alcuni scrittori italiani, andrebbe a sua volta tradotto. Abbiamo bravi scrittori che stanno arrivando: i Balcani sono stati un nido di conflitti e anche per questa ragione, naturalmente, la letteratura balcanica è piena di ottimi scrittori. Andrebbero ascoltati. Credo che Jonas Mekas avesse ragione: la civiltà deve ascoltare i suoi poeti se vuole sopravvivere e non morire».