Riabilitare per davveroCosti, dolore e inefficacia: le carceri italiane non funzionano, serve un altro modello

Non si ricorda mai abbastanza che la prigione deve portare anche al recupero del condannato. Come spiega Sergio Abis in “Chi sbaglia paga” (Chiarelettere) esistono alternative agli istituti pensati solo per rinchiudere

Qual è, allora, la ratio della casa circondariale, della gale­ra? Qual è il senso della detenzione anche al di là dell’articolo 27 della Costituzione repubblicana che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»?

Qual è la convenienza della società, della collettività dei cittadini, nel tenere in gattabuia una gran massa di esseri umani, spendendo cifre iperboliche, con la certezza che ne usciranno, nella migliore delle ipotesi (poco probabile), esattamente come ci sono entrati, pronti a riprendere il crimine?

Non sarebbe più logico, o meno stupido, spendere meno e rieducare i detenuti, come mostra di saper fare questo bizzarro posto ricco di ulivi e bellezza, diminuendo il numero di delinquenti a spasso a tutto vantaggio della tanto invocata sicurezza?

E tutto ciò senza le ubbie buoni­ste dei radical chic, sempre pronti al perdonismo esaspera­to, o dei soliti preti d’assalto con il Vangelo in mano: solo sana, italica, fondata concretezza. Soldi, insomma.

Mi pare di udirlo, il demagogo di turno, che tra un tweet e un post su Facebook, una foto su Instagram e un messaggio su Telegram, tuona alla televisione: è ora di fi­nirla con la pacchia delle carceri, che ci costano 135 euro al giorno per detenuto e prevedono anche la televisione a colori in cella! Da ora in poi spenderemo la metà, perché chi sbaglia paga!

Bene, sono d’accordo: spendiamo la metà, abbondiamo e facciamoli anche lavorare, così imparano.

Altro che ozia­re tutto il santo giorno in branda tra una partita a carte e una visita alla sala hobby per far finta di dipingere un quadro. E niente televisione in camera: chi si credono di essere?

Il signor demagogo si preoccupa se, come corolla­rio, riusciamo anche a far sì che diventino persone miglio­ri, o questo non è rilevante? Non è interessato? Fa nulla, lo siamo noi.

Mandateli in questo posto, previa verifica delle loro reali intenzioni (perché anche se il posto è bello, o forse proprio perché è così bello, non è facile entrarci, bi­ sogna dotarsi di volontà forte), e avrete ciò che aspettate: qui lavorano, pagano il proprio mantenimento, non man­giano a ufo come in carcere; osservano regole ferree di comportamento in tema di rapporti umani, non sono li­beri di andare dove credono e la televisione, solo una per tutti, è concessa per pochi minuti al giorno, nella sala co­mune; e poi presto a letto e presto in piedi perché si lavo­ra, ergo sveglia alle sei e mezzo.

Tanto è duro, questo car­cere così bello, che certuni rinunciano e preferiscono le sbarre, la cella, a dimostrazione che per uscire dalla collana senza fine di carcerazioni e delitti ci vuole una forte volon­tà, una gran convinzione ma, soprattutto, un’opportunità.

Certo, se poi si desidera ardentemente che il detenuto soffra – violando la Costituzione che lo vieta, detto per inciso – allora è un altro paio di maniche.

Spendiamo e spandiamo pure, facciamoli soffrire. E poco importa se saranno soldi buttati via e se, a fine pena, avremo ottenuto il prestigioso risultato di rimettere in giro delinquenti pro­vetti che causeranno danni alla comunità, insicurezza e altre spese, tra forze dell’ordine impegnate a catturarli e carceri che dovranno, posto che si riesca ad acciuffarli, te­nerli segregati ancora una volta.

In attesa della successiva, come un’infinita partita a Monopoli in cui il passaggio dal via venga ogni tanto interrotto da una sosta in prigione, poi si riprende come prima.

Su questo poco si può fare. Se è la vendetta, l’odio, la rabbia a guidare le azioni dei cittadini, allora non c’è ragio­ namento che tenga, il livore cancella tutto e tutto abbatte.

Eppure anche per questo possiamo provare a suggerire domande scomode. Ad esempio: siamo poi così sicuri che la sofferenza che riteniamo di imporre ai detenuti colpisca i delinquenti più pericolosi?

Quelli che hanno, più di altri, causato sofferenza alle persone che altra ne chiedono in cam­bio? O non sarà che, come nella nostra società di cui ci di­chiariamo tanto orgogliosi da invocare vendetta contro colo­ro che ne violano le leggi, è in fondo sempre il debole che finisce per pagare il prezzo più elevato? L’ultimo, il reietto?

da “Chi sbaglia paga”, di Sergio Abis, Chiarelettere, 2020, 16,90 euro

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