L’impegno di ciascunoNon perdiamo lo spirito di solidarietà che abbiamo sperimentato durante la quarantena

La crisi ci ha fatto sperimentare sentimenti fra i più nobili, che però ora rischiano di essere dimenticati. In assenza di una strategia di lungo periodo, è fondamentale che i singoli cittadini continuino a coltivarli. L’estratto del numero 4 di Civic, la rivista di Fondazione Italia Sociale

lockdown italia
Tiziana FABI / AFP

Non sprechiamo l’occasione. La pandemia inaspettatamente ci ha portato a ripensare al senso che il civismo può avere nella nostra vita sociale. Lo stato di emergenza in cui abbiamo vissuto per quasi cento giorni ha creato una condizione di sospensione dalla normalità che altrimenti sarebbe stata impensabile.

Nel male, c’è stato di buono che abbiamo vissuto un’esperienza che d’improvviso ha sfrondato le nostre vite da ciò che era inessenziale. Obbligandoci a concentrare l’attenzione su alcune, poche questioni fondamentali. Tra queste la riscoperta dell’importanza dei legami di solidarietà che ci uniscono, come antidoto allo stato di incertezza e fragilità.

L’isolamento domestico ha forzato milioni di italiani ad apprezzare ciò che era ormai troppo scontato per essere percepito: siamo esseri naturalmente sociali e non possiamo fare a meno delle relazioni con gli altri a lungo. Il distanziamento sociale – espressione che qualcuno ha trovato fuorviante – in realtà ha avuto l’effetto di farci mettere a fuoco proprio il suo opposto: la vicinanza che ci ha unito in uno stesso destino ha contato più della distanza che fisicamente ci ha separato.

Si è trattato del più grande esercizio di autodisciplina sociale da due generazioni a questa parte. La pesante privazione della libertà è stata vissuta dalla maggioranza degli italiani non soltanto come obbedienza obbligata all’ordine di un’autorità ma come una necessità condivisa in nome della tutela di un bene superiore: la salute propria e quella degli altri (inestricabilmente connesse). In questo senso il periodo in cui siamo rimasti confinati nelle nostre case è stato un vero momento civico, come di rado capita di vivere.

Alla prova del bilanciamento tra benessere individuale e interesse collettivo non ce la siamo affatto cavata male, nonostante la scarsa autostima di cui siamo dotati come paese. O forse proprio per quella, in quanto l’emergenza ci ha spinto a fidarci di noi stessi e della responsabilità individuale più che di interventi dall’esterno o dall’alto.

L’argine più efficace al contagio sono stati i gesti personali di cui ci siamo fatti carico, non senza disagi e difficoltà, sentendoci responsabili l’uno dell’altro. La crisi ci ha fatto sperimentare un senso di solidarietà fondato su un autointeresse illuminato: prenderci cura di noi stessi evitando che il nostro comportamento nuocesse agli altri.

Nell’emergenza abbiamo riconosciuto il valore dell’impegno personale, egoistico e altruistico al tempo stesso, in quanto capace di compensare le carenze di strutture e autorità. Tanto che, quando abbiamo espresso gratitudine per la dedizione e i sacrifici di cui ha dato prova il mondo della sanità, il pensiero è andato alle persone – a medici, infermieri, volontari dell’assistenza – più che alle istituzioni, di cui invece si sono visti limiti e mancanze.

“Andrà tutto bene” è stato lo scongiuro rassicurante di una nazione che ha fatto affidamento soprattutto sulle proprie forze. In quella formula, dall’apparenza ingenua e un po’ retorica, era contenuto al tempo stesso il dubbio di non farcela e l’intenzione di superarlo con la forza della volontà.

Il suo senso è stato quello di una chiamata a raccolta di energie e risorse dormienti, per affrontare insieme l’ignoto. Ed ha funzionato, perché a fronte di una minaccia esterna tendiamo a unire le forze e ad identificarci come comunità. Ci siamo stretti, coesi, attorno a comportamenti solidaristici e abbiamo fatto valere un senso civico sul quale non credevamo di poter più contare.

Quando però la minaccia si affievolisce anche questo sentimento di unità comincia ad indebolirsi. Nella fase due, e in quello che segue, nasce allora il problema di come fare perché l’esperienza di questo “momento civico” non venga rimossa. Ed anzi si ponga come base per pensare al futuro.

A questo proposito, la tesi di chi era convinto che la crisi scatenata dal coronavirus avrebbe cambiato in profondità il nostro modo di essere, di stare insieme, di fare economia, ha confuso un auspicio con la realtà. Qualcuno, durante il picco della pandemia, ha scritto che la buona notizia era che lo stato di emergenza poteva essere usato per cominciare a costruire un’economia più inclusiva e sostenibile. Il virus avrebbe attaccato il modello di sviluppo capitalistico, rendendo possibile un suo superamento. Una nuova stagione di coesione sociale avrebbe preso il sopravvento, sostituendo con nuovi valori la deriva individualistica degli ultimi decenni. E via dicendo.

È un fatto – e la crisi del 2008 dovrebbe avercelo insegnato – che non basta un’emergenza a renderci migliori. Anzi, solitamente quando si esce da un periodo drammatico desideriamo archiviarlo al più presto cercando di tornare a come eravamo.

La spinta psicologica in questo senso è potente e non c’è motivo perché anche con Covid-19 sia differente. Non aspettiamoci conversioni durature ad una vita più sobria ed etica, o cambiamenti radicali nel nostro modello di sviluppo sociale e economico. Non ci sveglieremo, dopo il confinamento, in un nuovo mondo.

Può darsi, come ha scritto Houellebecq, che sarà persino un po’ peggiore. Almeno dal punto di vista delle condizioni oggettive, viste le prospettive economiche. Le stime parlano infatti di una riduzione pesante degli occupati, che riguarderà soprattutto donne, giovani, e le forme contrattuali meno tutelate, in quanto più presenti nei settori maggiormente colpiti: turismo, ristorazione, servizi alla persona, cultura e spettacolo.

Nel solo mese di aprile sono svaniti 274 mila posti di lavoro: più di quanto fosse avvenuto in ognuna delle recessioni degli ultimi venti anni. E sarebbero stati molti di più senza uno dei più massicci interventi di cassa integrazione che si ricordino. Si vedrà poi, quando terminerà l’effetto dell’iniezione di denaro pubblico a favore delle imprese, quante riusciranno ad evitare la chiusura, e quanti saranno i lavoratori autonomi che scongiureranno la cessazione delle attività.

Le previsioni in ogni caso dipingono un quadro molto preoccupante, specialmente per l’Italia. Già la crisi del 2008 aveva agito a livello mondiale come un acceleratore di disuguaglianza; ci sono tutte le premesse perché anche questa volta i costi non vengano ripartiti in modo eguale e i più fragili ne facciano le spese più di tutti.

A questo quadro si somma poi un altro aspetto: il ritorno in campo dello stato interventista. Se durante la crisi sanitaria l’arma più efficace per contrastare il contagio è stata l’azione dei lavoratori della sanità – tutti, inclusi quelli impegnati nei lavori più umili – e più in generale dei cittadini, che con i loro comportamenti hanno fermato la diffusione del virus, la crisi economica ha visto invece entrare in scena l’intervento pubblico, dispiegato con una potenza ineguagliabile da parte del privato.

Le dimensioni sono davvero impressionanti: è dalla ricostruzione post-bellica che non si vedevano così tante risorse messe a disposizione dai bilanci pubblici. Una lezione che ricorderanno a lungo i fautori dello stato minimo. E tutti coloro che per decenni hanno predicato l’azzeramento del ruolo della mano pubblica in economia.

Voci oggi ammutolite, e che anzi si uniscono al coro di chi reclama interventi massicci dello stato per compensare le conseguenze del lockdown sul sistema produttivo. D’improvviso, la politica dei sussidi è tornata non solo ad essere presentabile in pubblico, ma addirittura virtuosa. E con essa, la verticalizzazione che ha rimesso in mano alla politica un potere che da tempo non aveva più.

Ma c’è un problema. Il ritorno dello stato non implica di per sé un ritorno della fiducia dei cittadini. Il deterioramento dei rapporti con le istituzioni è stato un processo progressivo, lungo e profondo, che la politica dei bonus più o meno a pioggia non basta a sanare. Volgersi alle istituzioni pubbliche per riceverne aiuto è stato un moto istintivo, più che la conseguenza di una fiducia radicata. Provocato dal desiderio di vedere lo stato come vorremmo che fosse più che come è veramente.

Il rischio è che nella fase aperta davanti a noi tornino gli stessi problemi di prima, con in più l’occasione mancata di un fiume di risorse che potevano essere usate per sistemare alcune delle debolezze strutturali che ci trasciniamo da anni. Dalla sanità alla scuola, dalla cura degli anziani all’efficacia della pubblica amministrazione, i cento giorni del coronavirus hanno messo a nudo una serie di situazioni su cui urge concentrarsi, piuttosto che disperdersi in un’infinità di rivoli utili solo ad assicurarsi un consenso di breve durata.

Ed è qui che si innesta la questione del “momento civico” da non lasciarsi sfuggire. Se le istituzioni politiche non sono in grado di esprimere una visione strategica, non va perduta la speranza: una visione strategica può e deve emergere dall’impegno civico dei soggetti sociali. Dall’azione civica di associazioni non profit, volontariato, organizzazioni dell’economia sociale.

Se non si vuole che il senso di unità e di responsabilità manifestato, in modo diffuso e concreto, all’apice dell’emergenza resti un episodio, si deve riconoscere nella cultura civica il fondamento della stabilità di un sistema politico democratico. Cultura civica è lo spirito con cui i cittadini sentono di voler contribuire con il proprio sostegno alla gestione della cosa pubblica, assumendo un ruolo attivo.

Senza questo spirito pubblico – che non è soltanto generica inclinazione culturale bensì disponibilità concreta alla partecipazione civica per la gestione del bene comune – la ripartenza sarà fragile e minacciata costantemente dall’instabilità. Perché le democrazie non sono il risultato inevitabile e acquisito per sempre del processo di sviluppo economico, bensì delle creazioni fragili in un mondo che è sempre minacciato dalla tirannia.

Perciò – come ci ricordava Hannah Arendt, forgiata dall’esperienza della perdita della libertà per mano dei totalitarismi novecenteschi – la formazione alla partecipazione e alla virtù civica è questione di vita e di morte.

La scoperta di quanto siamo interdipendenti – di come il gesto di uno si rifletta sugli altri – ci ha ridato consapevolezza che non siamo individui isolati ma componenti di una comunità che dipende da un equilibrio dinamico tra diritti e doveri. Civismo, responsabilità personale, spirito pubblico, doveri nei confronti dell’altro, comunità: erano parole di cui rischiavamo di perdere il significato. Ora che le abbiamo riscoperte, non perderle di nuovo dipende solo da noi.

Civic

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