More Than a Meal – The New York Times, 16 giugno
Dopo settimane ansiogene, trascorse in balia dell’incertezza e della paura, il nostro mondo sta provando a tornare a una qualche forma di normalità. “Nuova” o vecchia normalità che sia, lo vedremo solo nei prossimi mesi, ma il lento e faticoso riaprire dei ristoranti italiani è il segnale quasi definitivo che, almeno per il momento e scongiurando eventuali ricadute, ci stiamo mettendo alle spalle il periodo più buio della pandemia e dell’isolamento. Ovviamente non è così in ogni parte del pianeta, perché a migliaia di chilometri di distanza da noi ci sono paesi che stanno ancora facendo i conti con contagi, ricoveri e morti, e gli stessi Stati Uniti vivono un momento critico, in cui al coronavirus si sono aggiunte le proteste di Black Lives Matter. In questo contesto è comprensibile la nostalgia, dal sapore amaro e malinconico, per l’uscita a mangiar fuori, in compagnia, in serenità. È questo l’orizzonte in cui va inserito questo articolo interattivo del New York Times, in cui una manciata di scrittori e scrittrici racconta alcune significative esperienze al ristorante: sono Ruth Reichl, Samantha Irby, Alexander Chee, Adam Platt, Sloane Crosley, Bill Buford e Carmen Maria Machado. L’aspetto più interessante, al di là della piacevolezza della lettura, risiede nella dimostrazione che mangiar fuori è un’esperienza che va ben al di là del cibo, e in cui spesso il cibo è soltanto un accessorio, il contorno di un momento di comunione e intimità condivisa. More than a meal, più di un semplice pasto: noi italiani, abituati a vivere la dimensione totalizzante dell’osteria, dovremmo saperlo bene.
What Is a Recipe, Really? – Eater, 17 giugno
Se la pandemia ci ha costretti tra le mura di casa e ci ha relegati davanti ai fornelli, spingendoci a cucinare molto di più di quanto facessimo in precedenza, forse possiamo considerare questa crescita culturale e di abilità pratiche una delle poche note positive della crisi generata dal coronavirus. A patto però che trascorrere più ore in cucina ci abbia insegnato qualcosa di profondo su tecniche e sapori, e che non ci siamo limitati a ripetere stancamente e pedissequamente le ricette trovate qua e là. Navneet Alang in questo articolo discute proprio del ruolo delle ricette, con cenni al particolare momento storico in cui ci troviamo immersi. Per chi ha avuto la fortuna di leggere il bellissimo Il pedante in cucina di Julian Barnes, ora riedito da Einaudi, la diatriba sulla ricettistica non suonerà nuova. Barnes sosteneva infatti di essere (appunto) un pedante ai fornelli, e di trovare irritanti le ricette imprecise e inesatte che si trovano in moltissimi libri. Alang rappresenta la posizione opposta, quella di chi dice che le ricette sono solo un canovaccio intorno a cui sperimentare e crescere, trovando da sé la giusta misura, e che l’unico modo per imparare davvero a cucinare è evitare di seguirle acriticamente. A voi la scelta dello schieramento.
Che cosa ci perdiamo se perdiamo l’olfatto – Esquire, 14 giugno
Ancora sull’onda degli articoli che parlano di coronavirus & gastronomia ma non solo, accompagnandoci nella fase “post” (di nuovo sperando di non ritornarci dentro), merita una segnalazione questo pezzo di Dario De Marco: parte da un problema generato dalle conseguenze della malattia su molte persone che ne sono state colpite, vale a dire l’anosmia o perdita dell’olfatto, per fare un excursus più approfondito proprio su questo senso e sul ruolo che la nostra cultura gli assegna. Se è vero che «la posizione eretta non solo ci ha liberato le mani per la creazione di strumenti, non solo ci ha regalato il bonus del linguaggio e il malus del rischio soffocamento, ma ci ha anche messo nelle condizioni di inventare il brasato al Barolo, il fine dining e Masterchef», questo è perché l’olfatto è molto più importante di quello che siamo abituati a pensare. E per capirlo fino in fondo potremmo leggere il libro Il senso perfetto di Anna D’Errico (Codice Edizioni).
Meno allevamenti intensivi, meno epidemie – Il Tascabile, 16 giugno
Tra le numerose eredità del coronavirus c’è anche questa: l’aver imparato cos’è uno spillover (per chi non lo avesse fatto: passaggio di un patogeno da una specie ospite all’altra). Abbiamo discusso di Cina, di pipistrelli, di wet market. Abbiamo rispolverato, in alcuni casi, sentimenti razzisti verso i cinesi e gli asiatici in generale. Abbiamo anche messo in piedi tutta una serie di teorie del complotto sulla diffusione della pandemia. Ma visto che oggi vogliamo fortemente lasciarci alle spalle tutto questo dobbiamo anche sforzarci di fare 2+2, e legare razionalmente i vari tasselli del mosaico di informazioni che ci sono piovute addosso. Lo fa benissimo per noi Danilo Zagaria, che in questo documentato articolo evidenzia come la principale ragione alla base delle epidemie contemporanee risieda nel modello che abbiamo deciso di dare al nostro sistema alimentare, e nello specifico nella scelta di puntare sugli allevamenti intensivi. Così non può funzionare, a meno che non decidiamo di convivere con i rischi sanitari che tale percorso implica.
Op-ed: It’s Time to Rethink the Food System from the Ground Up – Civil Eats, 12 giugno
Sulla falsariga di quanto detto poche righe fa, occorre provare a ripensare un po’ tutto. In questo editoriale David Montgomery, Jennifer J. Otten e Sarah M. Collier spiegano quali sono i numerosi punti critici del sistema alimentare che andrebbero radicalmente riformati.
Per non perdere di vista il filone dei contributi sul razzismo in chiave gastronomico-alimentare che in questo periodo arrivano copiosi dagli Stati Uniti, ecco un selezione ragionata degli ultimi giorni:
‘When We Needed It to Be, Food Was a Weapon’ – Eater, 17 giugno
Billy X Jennings, Black Panther della prima ora, racconta come l’offerta di cibo alle persone bisognose sia sempre stata centrale nel programma del movimento.
Uncle Ben, Mrs. Butterworth and Cream of Wheat Face Scrutiny – The New York Times, 17 giugno
Mentre qui da noi Matteo Salvini ironizza sulle minacce di scomparsa di cibi e bevande dai nomi che evocano contesti razzisti, negli Stati Uniti la riflessione si è fatta seria, visto che alcuni marchi continuano a vendere prodotti di chiaro retaggio simbolico schiavista e discriminatorio.
Bon Appetit’s race problem is the food media’s race problem – San Francisco Chronicle, 11 giugno
Ancora sull’incidenza della whiteness nel panorama dei media gastronomici americani, sulla scia del caso Bon Appétit: stavolta ne scrive Soleil Ho.