Ripensare la scuolaLa prima riforma che serve all’istruzione è renderla più efficace

Le statistiche internazionali ci dicono che i (già pochi) soldi che si spendono sul settore, sono spesi pure male. Quando si tratterà di stabilire come spendere i finanziamenti del Recovery Fund, sarà importante non solo concentrarsi sulla quantità, ma anche sulla qualità. A partire dall’università

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“Prima di distribuire il reddito bisogna crearlo” è il mantra di chi si oppone alle politiche dei bonus e delle mancette, tanto amate in Italia anche dagli ultimi governi, apparentemente più preoccupati di distribuire risorse che di incentivare la loro creazione.

Solitamente, chi fa notare l’incoerenza e la miopia di politiche così sbilanciate solo sul lato della domanda invoca interventi che aiutino le imprese a investire, assumere, essere più produttive, visto che – non ci si dovrebbe mai stancare di ripeterlo – è la produttività il motore della crescita, ovvero quella che da trent’anni latita in Italia.

Ma cosa genera una maggiore produttività?

I fattori sono molti, ma tra quelli più a monte vi sono le competenze, la capacità da parte di una forza lavoro altamente istruita di produrre beni e servizi altamente competitivi, brevetti e innovazioni che possano superare la concorrenza basata sul prezzo.

Per generare competenze, non c’è altro modo, ci vuole l’istruzione.

Se l’Italia, con l’ausilio delle risorse europee, vorrà risollevarsi guardando oltre l’immediata emergenza, provando a ricostruire le basi per una crescita maggiore in futuro, non potrà ignorare questo capitolo, come ha fatto per esempio durante il lockdown. Non potrà farlo il governo, e neanche chi al governo e al suo neo-statalismo si oppone, come Confindustria.

Perché la gestione della scuola non è stata carente solo in termini quantitativi e di risorse, ma anche qualitativamente. Succede da sempre. Più un grado di istruzione è fondamentale per la formazione di competenze utili al sistema Italia e alla sua competitività, più viene trascurato.

Tanto è vero che il nostro Paese risulta, una volta tanto, fra i primi nella classifica europea della spesa pubblica in educazione pre-primaria, ovvero nel finanziamento delle scuole materne. Per ogni bambino viene speso l’equivalente del 18,8% del Pil procapite. Svezia, Finlandia, Norvegia, Polonia, Ungheria fanno meglio di noi, ma l’Italia supera comunque Germania, Francia, Spagna, e molti altri.

Molti genitori probabilmente hanno ragione a lamentarsi della scarsità di attenzione ai servizi della prima infanzia, eppure nei gradi di istruzione successivi le cose vanno anche peggio, almeno se usiamo come benchmark quello che succede negli altri Paesi. Se parliamo di finanziamento della scuola primaria, l’Italia si ritrova a metà classifica, venendo poi superata dalla Francia nella spesa per le scuole secondarie inferiori (medie) e da Francia, Spagna, Germania in quella per le superiori, che in questi paesi riceve il 24,7% del Pil pro capite per studente.

Ma il vero tracollo è all’università. Qui non si vede alcun finanziamento superiore a quello riservato agli studenti di licei o istituti tecnici o professionali. È un fatto che ci avvicina alla retrocessione in Europa. Solo greci, portoghesi, cechi, lettoni, lituani, spendono meno di noi per ciascuno studente universitario. E dire che nel nostro Paese abbiamo anche meno studenti degli altri.

Dati Eurostat

Pare che l’attenzione che poniamo sull’istruzione sia più votata all’esigenza di offrire un servizio (comunque insufficiente) alle famiglie, piuttosto che allo studente stesso o al Paese. Il progresso del finanziamento dell’istruzione da un grado all’altro in Italia resta piatto: tra le risorse dedicate allo studente medio delle scuole pre-primarie e quelle riservate agli universitari vi è un progresso di appena 7,7 punti di Pil pro-capite. In Francia è di 13,4, in Germania di 18,2, nei Paesi Bassi di 19,3, nel Regno Unito addirittura di 35,9.

Dati Eurostat

Fa eccezione la Spagna, che segue una tendenza più simile a quella italiana. In entrambi i casi conta probabilmente anche l’eredità di un approccio all’istruzione antico, incentrato sulla garanzia del diritto a un’istruzione obbligatoria per tutti, tema non scontato in Paesi, come quelli mediterranei, che registrano alti tassi di abbandono scolastico. Ci si concentra sulla quantità piuttosto che sulla qualità, tema che invece è decisivo in ambito di studi universitari.

Il risultato è una correlazione piuttosto evidente tra la spesa per l’educazione terziaria e la percentuale di laureati fra i trentenni, minima nel nostro caso: siamo penultimi in Europa, davanti solo alla Romania.

Dati Eurostat

Non facciamo però l’errore di pensare che basti immettere denaro per risolvere il problema. C’è un problema di curriculum, di materie studiate, di aggiornamento degli insegnanti (che sono nel caso italiano i più vecchi d’Europa), di risultati, che scarseggiano malgrado l’Italia non sia ultima a livello di finanziamenti.

Nelle materie scientifiche, la proporzione di 15enni italiani con risultati insufficienti nei test PISA (in gergo si chiamano underachievers) è superiore alla media, anche più di quanto la spesa per alunno potrebbe fare pensare.

In realtà, nemmeno nel resto d’Europa vi è un collegamento diretto tra finanziamenti e risultati.

Dati Eurostat

Lo stesso si può dire sul tema dell’abbandono scolastico, che in Italia colpisce ben il 35,8% dei ventenni stranieri che hanno studiato nel nostro Paese, i quali non riescono ad arrivare neanche il diploma, contro il 24,4% della Germania. Fra gli italiani questa percentuali è pari al 12,9%, contro l’8% dei tedeschi e l’8,8% dei francesi.

Anche in questo caso facciamo peggio di Paesi del Nord e dell’Est Europa, che pure spendono meno di noi per l’istruzione superiore.

Non significa che il tema dei finanziamenti non sia prioritario: lo è, ma significa che conta anche il come, non solo il quanto.

La battaglia (tale sarà) per l’uso del denaro del Recovery Fund passerà anche per la scelta delle priorità. Per fare in modo che, almeno in ambito di istruzione, la questione non sia solamente quantitativa, bisognerà rendersi conto che più soldi non significa solo stipendi maggiori per tutti e più insegnanti in ogni ordine e grado, ma anche migliori strumenti, più attenzione alle scuole professionali e tecniche e alla formazione delle competenze, e un aumento più che proporzionale delle risorse per l’università.

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