Poco prima del coronavirus l’università italiana sembrava aver iniziato a risollevarsi e a colmare perdite ingenti in termini di iscritti, laureati e tassi di occupazione. L’istituzione ha retto il colpo, peraltro «molto meglio rispetto alla scuola, la vittima più illustre di questa pandemia», dice Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea. Ma ora la crisi rischia di avere ripercussioni importanti sul sistema universitario. E quindi sull’intero Paese.
È quanto emerge dal rapporto Almalaurea 2020, presentato questa mattina alla presenza del ministro Gaetano Manfredi. Se l’Italia partiva da una condizione di forte ritardo, con 70mila matricole perse soltanto al Sud nel 2015, in questi anni è riuscita a recuperarne quasi la metà.
Il 2019 in particolare mostra alcuni dati incoraggianti: 166mila laureati di triennale, 87mila magistrali biennali e 36mila magistrali a ciclo unico. Un bilancio stabile, che registra anche un’età media leggermente più bassa rispetto al passato: meno di 25 anni di età per i laureati triennali e circa 27 per i magistrali. L’Italia rimane comunque penultima in Europa per numero di laureati (del resto, «solo il 40% dei 19enni si iscrive all’università», puntualizza Dionigi), ma negli ultimi anni si è iniziato a registrare un’inversione di tendenza.
A un anno dal conseguimento del titolo, il 74,1% tra i laureati di primo livello e il 71,7% tra i laureati di secondo livello ha trovato un’occupazione: statistiche in aumento di 8,4 punti per i primi e di 6,5 punti per i secondi rispetto alle rilevazioni precedenti. Segnali positivi che però, precisa Almalaurea, «non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione osservabile tra il 2008 e il 2014 e che devono comunque essere contestualizzati anche rispetto all’attualità».
La pandemia rappresenta infatti una prova non indifferente per i giovani che stanno per affacciarsi al mondo del lavoro. Di gran lunga più avvantaggiati degli altri sono i laureati in ingegneria, nelle professioni sanitarie e in architettura (a cinque anni dal titolo, più del 90% dei laureati magistrali in questi ambiti è occupato).
Nettamente più indietro, anche a distanza di anni dalla laurea, sono invece i dottori dei gruppi insegnamento, letterario, psicologico e geo-biologico, per i quali il tasso di occupazione è inferiore all’83%. In particolare, a raggiugnere le performance occupazionali migliori sono i laureati del gruppo medico (93,8%), mentre a perdere più degli altri sono quelli delle lauree giuridiche (il 78,2% di loro è occupato).
Insomma, la laurea serve ancora, ma molto dipende dalla facoltà. E in realtà anche l’aver conseguito un titolo di studio non contribuisce in maniera netta a innescare la mobilità sociale. In particolare, dal rapporto emerge come coloro che provengono da famiglie più svantaggiate, non solo in termini economici ma anche per livello di istruzione dei genitori, tendono a studiare per meno anni e anche quando arrivano a iscriversi all’università, scelgono corsi di laurea più brevi.
A determinare il proseguimento degli studi fra il primo e il secondo livello, poi, è soprattutto la presenza di almeno un genitore laureato in famiglia (il 73,1% di chi ne ha uno prosegue, contrariamente al 54,3% di chi non ne ha).
Rimane inoltre un fortissimo gap di genere (a parità di tutti gli altri elementi, gli uomini hanno il 19,2% di probabilità in più di essere occupati) e soprattutto territoriale: i residenti al Nord hanno il 40% in più di probabilità di trovare lavoro rispetto a coloro che vivono al Sud, e chi studia nelle università del Nord addirittura il 63,7% di probabilità in più di essere occupato rispetto a quanti stanno nel Mezzogiorno. Tant’è che il 44% di questi, a cinque anni dal titolo, lavora in una regione diversa dalla propria, o addirittura all’estero.
Ora, la pandemia rischia di peggiorare le performance e di aggravare queste differenze, sintomo di problemi irrisolti da lungo tempo. Gli effetti sono tangibili già ora: tra marzo 2020 e oggi i laureati alla triennale di maggio e giugno 2019 registrano -9 punti di occupazione e quasi il 3% in meno di retribuzione. A pagare il prezzo maggiore della pandemia sono ancora una volta il Sud e le donne – per loro, il calo occupazionale è del 10%.
Con l’ultimo decreto, il governo ha stanziato 1,4 miliardi per l’università, risorse che andranno in gran parte a coprire il diritto allo studio, in particolare per «l’incremento della no tax area e la riduzione delle tasse universitarie, e per l’aumento del fondo per le borse di studio regionali di 40 milioni, per garantire le borse agli idonei meritevoli», spiega il ministro Manfredi.
Ci sono anche risorse destinate a colmare il digital divide, ma ancora non è abbastanza: «Tutto il sistema di intervento 2020-21 dovrebbe diventare permanente, con investimenti ulteriori soprattutto sulla residenzialità universitaria», spiega il ministro. Il quale assicura anche che nella discussione sulla suddivisione delle risorse del Recovery Fund, «il diritto allo studio avrà un ruolo importante».
Se l’accessibilità universale agli studi universitari è una questione costituzionale, ricorda il presidente di Almalaurea, soprattutto in un momento come quello attuale («Se i genitori perdono il lavoro, come fanno a iscrivere i figli?»), in futuro ancora più importante sarà favorire le contaminazioni disciplinari, soprattutto tra gli iscritti delle lauree umanistiche.
Considerando come fra questi ultimi «quelli con competenze in ambito tecnico scientifico si laureano prima e meglio, fanno più esperienze, hanno un tasso di occupazione più elevato e sono meglio pagati rispetto a quelli dei percorsi tradizionali», ricorda la direttrice di Almalaurea Marina Timoteo, l’unione di saperi e competenze all’interno dei percorsi universitari è fondamentale per la riuscita professionale dei ragazzi e per la capacità delle aziende di inserirli al lavoro.