Rimozioni di comodoPerché l’Italia non riesce a fare i conti con il suo passato fascista?

Il regime cade ma il ricambio della classe dirigente non avviene. È il problema della continuità: in questo modo, negli apparati e nella vita culturale nessuno ha interesse a scavare a fondo su crimini commessi e responsabilità

Ma quali sono gli effetti di questo insieme di leggi dettate in parte dalla volontà di chiudere i conti col passato regime e in parte dal tentativo di dare una risposta alla domanda che a livello nazionale e internazionale molti si pongono: l’Italia del dopo 25 aprile è ancora fascista?

Il 25 giugno 1943, un mese esatto prima della caduta del fascismo, il segretario nazionale del Partito nazionale fascista Carlo Scorza dichiara soddisfatto che il partito ha ben 4.770.000 di iscritti (1). L’11% della popolazione italiana, neonati compresi.

Nei suoi vent’anni di regime il fascismo costruisce un’intera classe dirigente: non solo a livello eminentemente politico, ma anche nelle strutture dell’amministrazione, dell’economia e della cultura (2).

Sono mondi che in due decenni la dittatura cerca di penetrare e tirare dalla propria parte. Sono sottoposti a una politica di fascistizzazione la funzione pubblica, (3) la scuola, l’università, i rappresentanti delle parti sociali, ma anche le imprese private, i sindacati (4), l’associazionismo (5), lo sport.

È un’offensiva diretta a rendere uniforme e allineata un’intera società. Quando nel 1943 il fascismo cade, l’opera, almeno sulla carta, è in gran parte compiuta: i funzionari pubblici sono tutti iscritti al partito per legge, gli insegnanti hanno giurato fedeltà allo Stato-partito, i sindacati sono sostituiti dalle corporazioni fasciste; le associazioni sono assorbite nel circolo della gestione del tempo libero fascista e alle partite di calcio la nazionale fa il saluto romano.

Uno dei temi centrali della storiografia italiana postbellica, in particolare a partire dagli anni settanta, è quello che si concentra proprio sul fatto di comprendere quali reali effetti abbia avuto il fascismo “quotidiano” sulle vite di milioni di italiani.

La lettura principale si rifà ovviamente alla constatazione che dopo il 25 luglio nessun movimento di rivolta sorge nel paese per reclamare il ritorno del fascismo al potere: la guerra perduta, le privazioni e i bombardamenti probabilmente hanno fiaccato l’animo della popolazione e il suo attaccamento al regime: sono lontanissimi i tempi della proclamazione dell’impero del 1936, ma anche quelli della totale accettazione incondizionata delle leggi razziali nel 1938.

Le promesse disattese, il nemico alle porte e le difficoltà materiali di tutto il paese creano le condizioni per la caduta di Mussolini in modo sostanzialmente incruento.

Con l’8 settembre 1943 alcuni pezzi consistenti dell’apparato statale vengono spostati verso nord, a formare i quadri della nuova Repubblica Sociale (6).

All’estremo Sud sono gli alleati a cercare di ripulire l’ambiente dalle ingerenze fasciste, con difficoltà e poco metodo. Nel mezzo, uno Stato italiano monco e depotenziato (7) che, tra i mille compiti che lo attendono, dovrebbe avere come priorità anche una netta separazione da sé degli ultimi strascichi di potere dittatoriale.

Per quale motivo allora non si assiste, al momento del crollo del regime, a un’azione di incisiva ripulitura degli apparati statali, economici e sociali della nazione?

Si può affermare che il primo reale ostacolo all’effettiva epurazione degli elementi fascisti nelle élite sociali e negli apparati dello Stato è dato dal fatto che, dopo vent’anni di dominio, quasi nessuno all’interno dell’apparato ha effettivamente la legittimità e nemmeno l’interesse a scavare a fondo per indagare su crimini, connivenze e appoggi che sono comuni a tutti.

La difficoltà di imbastire una seria analisi delle colpe del fascismo passa proprio dal fatto che all’interno degli apparati dello Stato, così come tra i rappresentanti degli strati economici e culturali, pochi, anzi, pochissimi si possono erigere dopo il 25 luglio a paladini senza macchia di una pulizia approfondita.

Aver vissuto la vita pubblica italiana dal 1922 al 1943 senza finire al confino o peggio, significa, in qualche modo, aver trovato un modo di convivenza con la dittatura o quantomeno suscitare questo sospetto in chi invece è stato perseguitato.

A questa difficoltà di coscienza si somma poi un dato di fatto drammatico: l’intero apparato statale, amministrativo e produttivo, pur pervaso di elementi fascisti e comunque costruito, in quasi due generazioni, proprio sulla convivenza con il fascismo, non ha al suo interno chi possa vantare contemporaneamente esperienza sufficiente a far funzionare la macchina statale e al contempo credenziali solide di antifascismo.

Si tratta di quello che lo storico Claudio Pavone definisce «il problema della continuità»(8): non è possibile intervenire sulle strutture dello Stato separando l’elemento fascista da quello non fascista senza interrompere lo svolgimento dell’attività amministrativa.

Più in generale, chi arriva al potere dopo i fascisti continua a utilizzare per il governo gli uomini e le istituzioni che il fascismo ha creato nel ventennio precedente.

Da un lato appoggiandosi all’eccezionalità delle condizioni del paese, che dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l’8 settembre si trova in guerra con se stesso prima ancora che con gli occupanti stranieri; dall’altro per il fatto che anche la riforma in senso antifascista degli apparati pubblici richiederebbe esperti e persone d’esperienza che al momento il paese non può produrre, se non tra le file degli stessi fascisti di lungo corso.

Quando poi, a guerra civile conclusa, il momento appare propizio per un deciso cambio di passo e per un repulisti più efficace, si delineano nuovi scenari di necessità e la fine dell’emergenza bellica porta a un generale raffreddamento dell’interesse per la ripulitura di un apparato che è quanto mai necessario alla ripresa pacifica del paese.

Con il clima di contrapposizione montante a causa della Guerra Fredda e la fine dei governi formati da tutte le forze del Cln (9), la defascistizzazione diventa un tema decisamente secondario nell’agenda politica e anche in quella pubblica, anche perché anni dopo la caduta del regime anche tra i più convinti epuratori vi sono quelli che per convenienza o per opportunità puntano allo status quo.

Ricorda lo scrittore e partigiano Giorgio Amendola: «Forze presenti dentro e fuori il Cln non si proponevano affatto di spezzare la continuità dello Stato, che anzi attraverso quella partecipazione, volevano riuscire a salvaguardare» (10).

Le difficoltà, le lentezze e anche gli ostacoli volontari di un processo di epurazione che manca di linee guida chiare, portano all’abbandono dell’idea stessa di una epurazione “giusta”.

Note:

1) Dato ripreso dal Foglio d’ordini del pnf del 25 giugno 1943 e riportato in E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 202.

2) Sulla forza di penetrazione dell’ideale fascista nella società italiana e sulle modificazioni che esso le apporta, cfr. E. Gentile, Modernità totalitaria, Laterza, Roma-Bari 2008 e A. Tarquini, Storia della cultura fascista, il Mulino, Bologna 2011.

3) Legge 24 dicembre 1925, n. 2300, Dispensa dal servizio dei funzionari dello Stato. In G.U. n. 2 del 4-1-1926, che all’art. 1 prevede l’allontanamento dal servizio dei funzionari «che, per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio, non diano garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si pongano in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo».

4) Legge 5 febbraio 1934,n.163 Costituzione e funzioni delle Corporazioni.In G.U. n. 42 del 20-2-1934.

5) Legge 26 novembre 1925, n. 2029, Regolarizzazione dell’attività delle Associazioni, Enti ed Istituti e dell’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle Provincie, dai Comuni e da Istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle Provincie e dei Comuni. In G.U. n. 277 del 28-11-1925.

6) Riguardo alla scelta, voluta o obbligata, di una parte della pubblica amministrazione di seguire lo spostamento a nord dei fascisti e della fondazione dell’apparato amministrativo della Rsi cfr. M. Borghi, Tra Fascio Littorio e senso dello Stato cit.

7) La dicitura “Regno del Sud”, con cui molti si riferiscono alla compagine sorta dopo la fuga del re e di Badoglio a Brindisi in seguito all’armistizio, dà l’idea di un potere che, per quanto voglia dimostrare il contrario, è solo l’ombra dello Stato che si candida a rappresentare. Cfr. S. Bertoldi, Il Regno del Sud, Rizzoli, Milano 2003.

8) C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti sul fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg.

9) Il primo governo De Gasperi (10 dicembre 1945 1 luglio 1946) è l’ultimo ad avere al suo interno l’insieme di tutte le forze antifasciste, vale a dire Democrazia cristiana, Partito comunista, i Socialisti del Partito socialista italiano di unità proletaria, i Liberali, il Partito democratico del lavoro e il Partito d’azione, anche se la spinta a una radicale epurazione degli elementi antifascisti si registra già con la fine del governo Parri (dicembre 1945), che è il governo a cui si deve l’istituzione dell’Alto Commissariato per l’Epurazione dei fascisti. Per il cambio di rotta dell’esecutivo italiano tra il 1945 e il 1946 cfr. G. Fanello Marcucci, Il primo governo De Gasperi (dicembre 1945 giugno 1946), sei mesi decisivi per la democrazia italiana, Rubbettino, Palermo 2004 e G. De Luna, La Repubblica inquieta. L’Italia della ricostruzione 1946-1948, Feltrinelli, Milano 2017.

10) G. Amendola, La continuità dello Stato e i limiti storici dell’antifascismo, in Fascismo e movimento operaio, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 145.

 

da “Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto”, di Francesco Filippi, Bollati Boringhieri, 2020, 12 euro

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