Da almeno quarant’anni, uno dei temi chiave del dibattito politico tedesco è quello del cosiddetto Energiewende, la “svolta energetica”: il progressivo abbandono dei combustibili fossili in favore di fonti energetiche rinnovabili e meno dannose per l’ambiente.
Per un Paese come la Germania, e soprattutto per la sua industria, si tratta di una questione cruciale, la cui delicatezza è cresciuta sempre più anche a causa dell’ormai confermato abbandono del nucleare, stabilito nel 2011 dopo il disastro di Fukushima e pianificato per il 2022.
L’atomo fornisce circa il 14% del fabbisogno energetico del Paese, ma la parte del leone è svolta dal carbone, con il 30%. Le fonti rinnovabili principali (fotovoltaico ed eolico) contribuiscono con un buon 34%. La strada per l’indipendenza energetica totalmente green è ancora lunga: non va poi dimenticata l’importanza del gas proveniente dalla Russia attraverso il gasdotto Nord Stream – inclusa la seconda linea su cui ancora si discute.
Un aspetto problematico è legato alla produzione e al suo peso sui livelli dell’occupazione tedesca. L’industria energetica e mineraria sono state per lungo tempo un perno centrale dell’economia nazionale, fornendo di materiali e combustibili gli stabilimenti delle grandi aziende, dando lavoro a intere regioni, il cui sviluppo si è legato in modo inscindibile alle attività estrattive.
Il boom economico del dopoguerra è stato possibile anche grazie all’apporto dei bacini estrattivi: al costante rifornimento che garantivano alle industrie pesanti che riprendevano slancio, e che sarebbero presto diventate uno dei simboli più riconoscibili del Paese, e alle grandi opportunità di lavoro che offrivano per tutti, tanto da essere alla base delle prime grandi ondate migratorie verso i Länder protagonisti della ripresa.
Il cambiamento di prospettiva verso fonti energetiche più ecologiche ha avuto e sta continuando ad avere un impatto massiccio anche su questo lato della questione. Nonostante la lentezza delle decisioni prese in merito dai governi, alcuni obiettivi sono ormai parte dell’agenda politica condivisa, e non si tornerà più indietro: i problemi però hanno a che fare soprattutto con la tempistica.
È noto ormai da anni che la Germania non sarà in grado di rispettare tutte le scadenze previste per la transizione energetica e per la riduzione dell’inquinamento, ma sono sempre più evidenti le diverse velocità a cui si muovono i diversi attori in campo – ed è sempre più chiaro il potenziale costo che pagherà chi si sta già trovando lasciato indietro.
L’Energiewende ha infatti un legame stretto con l’innovazione: non vuol dire solo nuove scoperte ma anche lo sviluppo di infrastrutture adeguate per sostenere le tecnologie necessarie. La Digitalisierung (digitalizzazione, ndr) è da sempre un tasto dolente per il governo tedesco.
Si sta mostrando tragicamente in ritardo un piano di riconversione a tutto tondo, che tenga conto anche dei cambiamenti imposti al mondo del lavoro e dell’occupazione. La progressiva chiusura delle miniere è giunta all’epilogo nel dicembre del 2018, quando anche l’ultima cava di antracite ha serrato i cancelli. Ma non è corrisposto uno speculare rinnovamento produttivo e occupazionale nei nuovi settori ad alta tecnologia che, nelle intenzioni, ne avrebbero preso il posto: basti pensare che in Germania circa 291.000 persone sono impiegate nel campo delle energie rinnovabili (dati del 2017), ma nelle miniere del bacino della Ruhr e degli altri distretti minerari ai tempi d’oro ne lavoravano oltre 600.000.
La lenta transizione ha lasciato intere regioni senza un piano di riconversione, un problema che riguarda non solo il martoriato Est del Paese ma anche, e forse soprattutto, il benestante Ovest.
Uno studio pubblicato poco più di un anno fa dalla Friedrich-Ebert-Stiftung, una fondazione vicina alla Spd (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), il partito socialdemocratico tedesco, ha infatti rivelato come gli effetti più gravi, in termini economici e occupazionali, si possano ritrovare proprio in alcune zone dell’ex Germania Ovest.
I ricercatori hanno individuato una serie di parametri legati alla qualità della vita, e sulla base di questi criteri hanno stabilito cinque livelli principali, dal migliore al peggiore, da sovrapporre poi alla cartina del Paese, per ottenere una vera e propria “mappa” su cui far risaltare le zone geografiche in cui si vive meglio e quelle in cui si vive peggio.
Da certi punti di vista i risultati possono sembrarci prevedibili: i punteggi più alti li hanno ottenuti le zone che circondano le grandi città come Monaco, Francoforte, Amburgo, realtà dinamiche dove si concentrano ricchezza e grandi opportunità; il quarto livello invece, il penultimo scendendo verso il basso, corrisponde alle zone rurali in crisi strutturale permanente, ed è praticamente sovrapponibile all’ex Germania Orientale – naturalmente con l’importante eccezione di Berlino.
Nessuna novità: il divario Est-Ovest è ancora ben presente nella Germania post-riunificazione, e l’abbiamo tutti ben presente, ne abbiamo sentito parlare moltissimo soprattutto nel novembre scorso, in occasione delle celebrazioni per il trentennale della Wiedervereinigung (la riunificazione tedesca del 1990, ndr).
Ma è il quinto livello, il peggiore, a riportarci a Ovest: è il livello delle ex-città industriali che non sono ancora riuscite ad adattarsi a un contesto economico e produttivo profondamente mutato, e che dal boom minerario e industriale del passato si sono ritrovate in un presente fatto di povertà infantile e degli anziani maggiore che nel resto del Paese, di comuni tragicamente indebitati, pochissime opportunità lavorative e addirittura l’aspettativa di vita più bassa di tutta la Repubblica Federale.
Città come Dortmund, Duisburg, Treviri: i capoluoghi del glorioso passato industriale ed estrattivo della Ruhr e dei distretti limitrofi che oggi non riescono a risollevarsi e rimangono strutturalmente indietro, incapaci di ridurre il distacco.
Il destino energetico ed industriale della Germania è segnato, e sarà per forza di cose sempre più verde, indietro non si torna e il traguardo è ben chiaro. Ma la strada per arrivarci, e i costi del viaggio, sono cose di cui bisognerà discutere ancora a lungo.