L’automobile è una delle prime immagini che ci saltano in mente quando pensiamo alla Germania, magari insieme alle patate, alla birra e al calzino bianco con il sandalo: Das Auto, come recita una fortunata pubblicità di un noto colosso automobilistico tedesco. Simbolo di un intero Paese, prodotto industriale e da esportazione per eccellenza, la Germania è davvero una Autoland, una “terra delle auto”.
Naturalmente non si tratta solo di una questione di immaginario: l’auto occupa un posto centrale nel tessuto produttivo del Paese. Il settore automotive è una delle forze trainanti dell’economia tedesca, dà lavoro a oltre 800.000 persone e si può fregiare di alcuni fra i marchi più prestigiosi sul mercato.
Da alcuni anni, però, il buon nome dell’industria è stato sporcato da una gigantesca macchia: quella del cosiddetto Dieselgate, lo scandalo legato alle emissioni truccate dei motori diesel che inizialmente aveva coinvolto Volkswagen ma si è rapidamente allargato a quasi tutti i principali produttori, rivelando un vero e proprio regime di cartello fra le aziende.
Il colpo è stato durissimo, ma i danni sono stati in qualche modo contenuti anche grazie all’immancabile supporto della politica, che ha garantito tutto il sostegno possibile per superare la crisi – secondo alcuni anche troppo.
In molti infatti lamentano come il rapporto fra politica e industria automobilistica sia in Germania troppo sbilanciato verso quest’ultima, e che le grandi case possano ottenere più o meno tutto quello che vogliono dai rappresentanti del governo grazie a una capillare attività di lobbying; inoltre, lo scandalo ha rivelato una volta di più la vastità del fenomeno delle porte girevoli fra i due mondi, mostrando il trafficatissimo via-vai di personale fra politica e mondo dell’auto.
In queste settimane, però, qualcosa è cambiato: e se forse è troppo presto per parlare di un vero e proprio mutamento di paradigma, tuttavia si intravedono sempre più segnali che sembrano proprio puntare in quella direzione.
Il primo è venuto da Karlsruhe, sede della Corte Costituzionale tedesca, il 25 maggio. Quel giorno la Corte ha emesso una sentenza in qualche modo storica: ha infatti dato ragione a Helbert Gilbert nella causa da lui intentata contro Volkswagen.
Una delle conseguenze del Dieselgate, infatti, è stato un drastico abbassamento del valore dei veicoli diesel prodotti dalle case coinvolte nello scandalo: tantissimi automobilisti tedeschi si sono ritrovati da un giorno all’altro possessori di auto che valevano molto meno di quanto avevano pagato, e le cui possibilità di rivendita erano quasi azzerate.
Non solo: le reali emissioni dei motori diesel coinvolti erano molto più alte di quanto dichiarato e di quanto consentito dalle leggi per il traffico cittadino, e quindi questi automobilisti hanno scoperto, anche in questo caso da un giorno all’altro, di non poter più circolare in città nonostante le garanzie ricevute al momento dell’acquisto del veicolo.
Un danno piuttosto significativo che ha colpito decine di migliaia di tedeschi, fra cui appunto Helbert Gilbert, che ha deciso di citare in giudizio Volkswagen. E i giudici di Karlsruhe gli hanno dato ragione, in una sentenza che crea un precedente: ora i consumatori “truffati” potranno restituire le auto comprate e farsi ridare i soldi, pur facendosi accreditare i chilometri percorsi.
La Corte ha stabilito che solo chi ha fatto ricorso ha diritto al risarcimento, ma secondo le stime si tratta comunque di circa 60.000 reclamanti.
Il segnale più forte è arrivato però qualche giorno dopo, con l’approvazione del Konjunkturpaket, un ulteriore intervento straordinario di sostegno economico da parte del governo per affrontare la crisi legata al coronavirus.
Il pacchetto di aiuti prevede una serie di misure per circa 130 miliardi di euro, da aggiungersi ai 750 approvati a marzo, e include aiuti alle famiglie, alle imprese e ai comuni, oltre ad una riduzione temporanea dell’IVA, che dal primo luglio fino a fine anno passerà dal 19% al 16% – e dal 7% al 5% per i beni di uso quotidiano, come i generi alimentari.
Ci si attendeva che trovasse spazio anche qualcosa per aiutare l’industria automobilistica, colpita duramente dalle conseguenze della pandemia dal momento che alcuni grossi stabilimenti hanno dovuto interrompere la produzione: e in molti scommettevano nell’inclusione dei cosiddetti Kaufprämie, cioè bonus d’acquisto per i consumatori.
Ed effettivamente i Kaufprämie ci sono, e anche consistenti: ma solo per le auto elettriche. Fino alla fine del 2021, i contributi statali per l’acquisto di un’auto elettrica passano da 3.000 a 6.000 euro, per veicoli che costino fino a 40.000 euro, e sono previste anche delle sovvenzioni per i produttori. Inoltre, 2,5 miliardi saranno destinati allo sviluppo e alla diffusione delle infrastrutture legate alle auto elettriche, come ad esempio l’ampliamento della rete di ricarica, e alla ricerca.
Una scelta duramente criticata non solo dalle case produttrici, ma anche dai sindacati: Jörg Hoffmann, il capo del sindacato metalmeccanico più importante del Paese (la IG Metall), ha parlato di una “grave perdita di fiducia” nei confronti del settore automobilistico.
Anche la politica è parsa divisa sul tema: secondo il ministro dell’Economia Peter Altmaier (Cdu e uomo fidatissimo di Angela Merkel) si tratta di un’occasione perduta per rafforzare un settore chiave, e la leadership della Spd era contraria alla decisione. Uno dei due leader dei socialdemocratici, Norbert Walter-Borjans, ha però difeso la scelta del governo: la politica non è semplicemente l’esecutore degli ordini dell’industria, ha commentato.
E proprio in questa frase si nasconde il significato più rilevante di questa decisione, l’indizio più evidente di un mutamento di prospettiva: se non il rovesciamento, quanto meno un bilanciamento del rapporto fra politica e industria dell’auto. Come scrive lo Spiegel, la politica ha smesso di seguire ciecamente BMW, Volkswagen, Daimler e gli altri: «i tempi in cui il governo esaudiva quasi tutti i desideri del settore automobilistico sono finiti».
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