Peccati di superbiaNon abbiamo rispettato i limiti della natura, e il virus è stato la sua ribellione

Rompere i delicati equilibri dell’ecosistema ha le sue conseguenze. L’uomo lo ha dimenticato e, come scrivono Eliana Liotta e Massimo Clementi in “La rivolta della natura” (La Nave di Teseo), la pandemia da Covid ne è stata la conseguenza

Nelson ALMEIDA / AFP

La nostra guerra contro i virus sarà una lotta della memoria contro l’oblio. Per quanto se ne sa, dove c’è vita ci sono virus. Infettano ogni creatura del pianeta, dal delfino alla rondine. Batteri, funghi, protozoi. In una goccia d’acqua di mare, un microbiologo come te, Massimo, ne scova oltre un milione.

La loro scatoletta di geni giace avvolta in un involucro di proteine, inerte, da qualche parte per aria, in terra o negli oceani.

Non viva, come un soprammobile chimico, come una pietra. Ma quando entra in una cellula opera una possessione demoniaca. Penetra, si libera del vestito proteico, scopre i suoi geni e prende il sopravvento. La cellula può solo riprodurre il genoma del parassita che le succhia ogni volere e fabbricare copie di “figli” non suoi. Spesso ne muore.

Cosa c’è di più disumano? Ma proprio le piaghe da virus hanno cesellato la storia dell’uomo, la sua cultura. Il vaiolo piegò il faraone Ramses V, lo hanno capito studiando la mummia, l’AIDS ha segnato la sessualità dell’Occidente, COVID-19 cambia le società globalizzate.

Il nostro stesso patrimonio genetico è un ammasso di cicatrici delle battaglie combattute.

Per un terzo, o forse più, il DNA è formato da geni catturati da antichi virus, rimasti incastrati per sempre dentro di noi, dall’alba dell’evoluzione dei mammiferi. Uno è il gene per la sincitina, la proteina che ha reso possibile lo sviluppo della placenta, cinquanta milioni di anni addietro.

Fa quasi tenerezza immaginarsi una mamma virus, ed è vero, la grandezza umana non esisterebbe senza quel dono infinitesimo. Noi e loro, loro e noi.

L’infezione non è una parentesi patologica del passato o dei luoghi selvaggi: è l’essenza stessa della nostra vita, è la normalità. Follia è averne smarrito la coscienza.

E ora, mi chiedo, come potremmo dimenticare? Siamo rimasti in attesa, settimane, dal giorno in cui ci hanno detto che in un paese lombardo, Codogno, era arrivato il coronavirus.

Improvvisamente, come la neve. Il numero dei morti cresceva e noi ci sorprendevamo con gli occhi nel vuoto, tutti a fare lo stesso incubo. Erranti nelle case, vagabondi nelle nostre stesse esistenze.

E come potremmo dimenticare? Chi oserà perdere traccia delle file di bare portate fuori da Bergamo, perché in quella città martoriata non c’è stato più nemmeno il posto per i morti?

Chi si permetterà di scordare il dolore dei medici, quando non riuscivano a salvare i malati senza respiro? I pazienti intubati a testa in giù in terapia intensiva, gli ospedali diventati lazzaretti, gli infermieri con le facce deformate dalle protezioni.

Il mio cuore ha tremato ogni giorno al pensiero di una madre, mia madre, blindata in una casa di riposo milanese. Tremo ancora di rabbia perché non siamo stati in grado di assistere i nostri vecchi. La strage negli ospizi è la vergogna d’Italia.

Avevamo perso la memoria. I virus seguono schemi vecchi miliardi di anni, rodati. Vale, solo in parte, il cliché dei film western: i buoni contro i brutti e i cattivi.

Non c’è questa divisione dozzinale tra Bene e Male, è più un’armonia dell’universo, un’immensa e continua bilancia tra bianco e nero. Loro possono annientarci oppure mescolarsi con noi, diventare cervello, fegato, pelle.

Quale arroganza immaginare di poterli trascurare, addirittura dominare. Be’, non sono cagnolini. Se fossero un popolo, me li figurerei in piena rivoluzione, per ribaltare l’era dei re sapiens.

Somigliano ai semi. Dormono nel segreto dell’invisibile finché non trovano un terreno per germogliare. Diciamo che tendono alla vita e noi stiamo creando i presupposti perché attecchiscano rigogliosi.

La deforestazione avanza in una maniera che è illogica: ogni anno perdiamo un’area grande quanto il Belgio di foreste primarie (secondo i monitoraggi del Global Forest Watch Institute). Distruggiamo pezzi di Amazzonia per coltivare soia da dare in pasto alle mucche che poi ci mangiamo.

Abbattiamo migliaia di alberi e pensiamo di uscirne indenni. E le fiabe che ci raccontavano da bambini? C’era una volta Cappuccetto Rosso, che nel bosco incontrava il lupo. Un’altra volta c’erano Hänsel e Gretel, poi Pollicino, e si perdevano. Nel fitto dei rami si annidano pericoli: questo insegnano i racconti.

Nelle tragedie greche l’antefatto che produceva conseguenze terribili era la hybris, la tracotanza, quell’inflazione psichica che fa oltrepassare incoscienti i propri limiti.

Con la superbia del galoppo economico, abbiamo rivoltato interi ecosistemi. Ma quando si annientano le foreste, insetti e animali restano senza casa.

Per accedere alle aree trasformate si costruiscono strade, si formano insediamenti antropizzati e l’habitat naturale si frammenta. I virus invece si alzano come la cenere dal camino, quelli che conoscevamo e altri di cui non sospettavamo l’esistenza.

E intanto mandiamo nell’atmosfera tonnellate e tonnellate di CO2, perché buttando giù e bruciando gli alberi è come se facessimo un enorme falò con carbone e petrolio, i combustibili responsabili dell’effetto serra. Sterminiamo specie, deturpiamo il mondo, aumentiamo il riscaldamento globale. Ci facciamo del male.

Sarah Zohdy, ricercatrice in Alabama, nel dipartimento di Malattie dell’ecologia all’università di Auburn, ha pubblicato uno studio che parte da un punto assodato per la comunità scientifica: gli habitat degradati ospitano più virus che possono infettare l’uomo.

La tesi è che si instauri un effetto di coevoluzione, per cui gli agenti patogeni, in ambienti impoveriti, si mettono a mutare molto in fretta per adattarsi alle poche specie rimaste.

da “La rivolta della natura”, di Eliana Liotta e Massimo Clementi, con la consulenza dello European Institute on Economics and the Environment (EIEE), La Nave di Teseo, 2020, 17 euro