C’era un venticello di fine estate. Era giovedì 19 settembre. E la scena avveniva al Palacio della Moncloa, davanti a milioni di spagnoli che seguivano in Televisione l’intervista di Pedro Sánchez, già presidente del Governo ma ancora alla ricerca di una maggioranza.
«Guardi, sinceramente, io non dormirei la notte se ci fossero ministri di Podemos, senza esperienza nella gestione pubblica. E così la pensa anche il 95% degli spagnoli», disse Sánchez, con la sua voce rauca da crooner, un po’ alla Paolo Conte ma senza swing. Il venticello estivo portò via lontano quelle parole. Ed oggi, al piano di sopra rispetto al salotto dell’intervista, siedono ben 5 ministri di Podemos nel governo presieduto da Sánchez.
Pensavate che la politica era bella solo da voi, cari amici italiani?
Ma per la prima volta, dopo pochi mesi di Governo, Sánchez e il suo Partito socialista si trovano ad un bivio politico molto simile a quello del Partito democratico e di altre forze socialdemocratiche in Europa: ritrovare la strada dei principi riformisti o avvicinarsi all’“Internazionale casinista” pur di governare?
Per capire cos’è l’Internazionale casinista va fatta una premessa, cari lettori: questa non è una discussione destra-sinistra. «L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia». Certo. Ma non qui. Qual è il filo che lega sovranisti, populisti e qualunquisti di questo tempo? Il casino. Il casino e non altro.
(Facciamo una cosa: siccome questo dev’essere un articolo intellettuale, lasciamo alle procure aggiungere al casino, magari fra qualche mese, un possibile finanziamento estero. Per ora, rimaniamo al casino).
È stato il sempre pragmatico ex premier Felipe González, vecchio lupo del socialismo degli Ottanta, a suonare l’allarme comparando le discussioni all’interno del Governo spagnolo con «la cabina dei fratelli Marx». Magari pensando che a Podemos sono marxisti tendenza compagno Groucho piuttosto che Karl.
Appunto, nella cabina indimenticabile di Una notte all’opera cosa c’era? Destra? Sinistra? No, cari amici. C’era casino. Tanto casino. Rumore. Baraonda. Confusione. Caos. Ma neanche la metà di quello che possono creare Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista all’interno di un governo.
Il punto non è che i cinquestelle, con la loro eredità leghista (basti pensare ai decreti sicurezza), siano troppo a destra per il Partito democratico, così come non è che Podemos sia troppo a sinistra per il Partito socialista spagnolo. Il punto è che queste forze sono allergiche all’etica della responsabilità, per dirla come Max Weber. Non sto dicendo che siano forze antidemocratiche. Nemmeno illegittime. Ci mancherebbe. Ma danneggiano la democrazia. La sbriciolano. Come?
Non ho detto gioia ma noia
Pablo Iglesias, leader di Podemos, ha sempre parlato in modo molto elogioso dei «Cinco Estrellas». Entrambi i movimenti sono cresciuti politicamente denunciando la casta. E poi c’è qualcosa di definitivo che li accomuna, assieme ad altri casinisti in chief, come Donald Trump: al di là delle loro convinzioni politico-esoteriche, tutti trovano noiosa la democrazia.
Uffa che palle un codice civile. Faccio una legge o scrivo un tweet? Mi siedo coi capigruppo o vado in onda? Scrivo un libro o prendo un mojito al Papeete? Eh sí. Bisogna dirla tutta: la democrazia è di una noia mortale. Deliziosamente prevedibile. Spettacolarmente grigia. Come una scintillante catena di montaggio. Come uno sconvolgente sistema idraulico. È piena di dossier lunghi, di competenze tecniche, di sottosegretari con la cravatta, di quei Matuidi, quei Jorginho, quei Brozovic istituzionali che lavorano perché, ogni tanto, il sistema possa fare gol.
A volte immagino Pablo Iglesias che canta (chiedo scusa, Califano): «Per sistemare lo Stato un pomeriggio, sul letto le lenzuola color grigio, funziona tutto come un orologio… Non ho detto gioia, ma noia, noia, noiaaaa».
Forse per superare questa «maledetta noia», Podemos e il Movimento 5 Stelle sono stati da sempre affascinati da quella che chiamano “democrazia diretta”, che sta alla democrazia quanto la marcia militare sta alla musica. Qualche software (firmato Casaleggio) che permetta di premere un tasto e non rompersi tanto le palle.
Così si può comandare un partito. Così si possono anche vincere le elezioni. Ma gestire uno Stato è una cosa ben diversa. E non ci sono strade dirette. Perché la democrazia, oltre che noiosa e piena di curve, è lunga. Lunghissima.
Joker ride, ma sa anche piangere
La teoria del casino non è mia. L’hanno presentata loro. Beppe Grillo se ne vantava già nel 2013: «Andiamo a ricreare una situazione di scompiglio così come all’inizio del secolo. Il millennio è alle porte, e il Movimento 5 Stelle è il paladino dell’ordine e del disordine». Ordine e disordine. Tutto compreso. Peccato che “ordine nuovo” fosse già preso. Mannaggia.
Sono reazionari, ma nel senso spiegato da Mark Lilla, politologo, nel suo libro “Il naufragio della ragione. Reazione politica e nostalgia moderna”: «I reazionari non sono conservatori. Possono essere così radicali come i rivoluzionari». Sono reazionari perché sono anti razionali, sia contro il progresso scientifico (vaccini), che contro lo sviluppo economico o le opere pubbliche (Tav o ponte sullo stretto).
Sono reazionari perché non capiscono il riformismo. Sono reazionari perché non scelgono fra quello che è giusto e ingiusto, ma fra ciò che ritengono buono o cattivo. Sono reazionari perché sono moralisti.
Ma fanno casino. Anni fa, Pablo Iglesias aveva detto che «la gente ormai non milita più nei partiti ma nei media». Uno avrebbe la “tessera politica” de La7, o di Repubblica, di Libero o di Radio Popolare. «Perciò», aveva aggiunto Iglesias, «bisogna esserci dentro». O costruirsene uno su misura, come Il Fatto Quotidiano. La fine non giustifica più i mezzi, ma i media.
È indiscutibile il loro fiuto mediatico. Iglesias loda Joker sui social, Grillo addirittura si veste come lui. Ma Joker piangeva tanto quanto rideva. E ora (visti i sondaggi) sembra arrivare quello che Flavia Perina ha chiamato sabato su Linkiesta «lo spleen del populismo». Manuel Cruz, bravo filosofo spagnolo, socialista e anche ex presidente del Senato, già scriveva nel suo libro “El ojo del halcón”: “Quando un politico diventa un bene di consumo, ha il rischio di stabilire verso di lui lo stesso rapporto che c’è con qualsiasi prodotto». Forse il Movimento 5 stelle e Podemos stanno per diventare come la cherry coke.
Non c’è più Nanni Moretti che sgrida D’Alema davanti allo schermo per non essere di sinistra. Servirebbe una versione spagnola (la butto? Dai, la butto) con Nannos Morettos che si mette la mano in faccia davanti alla tv e dice: «Che tortura. Ancora un’intervista? Iglesias, non dire qualcosa di populista, dai. Non dire niente… neanche se non è populista. Anzi, Iglesias, ti prego, non dire niente».
La notte da leoni della destra
Pedro Sánchez non è un radicale, è un pragmatico. Cioè, ha scelto questa strada casinista perché era l’unica possibile. Non aveva altre opzioni per formare un governo. Di parlare con l’estrema destra montanara di Vox, sovranista e incazzosa, più vicina a Fratelli d’Italia che alla Lega, non se ne parla.
Il Partito Popolare, che con Mariano Rajoy scappava dai dibattiti ideologici puntando sulla gestione, ha perso la bussola e ormai è anch’esso affascinato dall’Internazionale casinista. Un giorno su quattro si sveglia moderato, vicino al suo passato. Gli altri tre si ritrova la mattina davanti allo specchio, come un personaggio del film “Una notte da Leoni”, spettinato, con un bidone di benzina in una mano e un accendino nell’altra, senza capire come mai.
Il Partito popolare non nasconde che Vox è il suo alleato per raggiungere la Moncloa e già governano insieme enti locali e regionali. Lo squalo e il salvagente nella stessa vasca da bagno.
Ma ora forse Sánchez ha una possibilità per uscire dal casino. Ciudadanos, sotto la leadership di Inés Arrimadas, sembra non voler più essere una stampella comica della destra nazionalista e di voler tornare a essere il cardine centrista, moderato e liberale, la linea politica che l’aveva portato ai suoi primi successi. Aver votato lo stato d’emergenza voluto dal governo di Sánchez è stato il colpo di campana che ha aperto una possibile nuova tappa nella politica spagnola.
Forse in futuro ci saranno possibilità anche per la sinistra, come Más País che, sotto la guida dell’ex numero due di Podemos, Íñigo Errejón, ha governato negli ultimi 4 anni la città di Madrid con Manuela Carmena dimostrando che futuro, verde, sinistra e gestione possono convivere al potere.
La strada di El País
Ma anche nella riva socialista del fiume ci sono nemici della tentazione casinista. La prima, Nadia Calviño, vicepremier, ministro dell’Economia ed ex alta funzionaria dell’Unione europea. Lei parla di «investimenti e riforme» e Iglesias di «una tassa ai ricchi». Se Iglesias annuncia la cancellazione della riforma del lavoro fatta da Rajoy, Calviño risponde che sarebbe controproducente. E così via.
È lei che tiene ben salde le redini del Governo per non allontanarsi dei principi liberali, socialdemocratici e moderati. Con la crisi economica che aspetta la Spagna quest’autunno, e la disoccupazione probabilmente attorno al 20%, le tensioni interne aumenteranno. Perciò, per togliere di mezzo la Giovanna d’Arco del riformismo,
Iglesias preme affinché Calviño prenda il posto di Mário Centeno alla testa dell’Eurogruppo.
Le repliche del dibattito sono arrivate anche all’interno della bibbia giornalistica del socialismo spagnolo: El País. Ormai, una delle tante aziende giornalistiche in piena crisi di ricavi e di rotta. La direttrice Soledad Gallego Díaz, arrivata due anni fa proprio per spostare il quotidiano più a sinistra e avvicinarlo a Pedro Sánchez, è stata licenziata questa settimana.
Tanti lettori hanno annunciato sui social di aver disdetto i loro abbonamenti, come tifosi che bruciano la maglia del centravanti davanti allo stadio il giorno in cui il mercato gli ricorda che quei baci allo stemma cucito sul petto non erano vero amore, ma solo un flirt all’epoca dello speed dating.
Molti credono che sia una mossa della Banca Santander, primo azionista del País, e dell’ex premier Felipe González, per spostare Sanchez verso il centro. Sarà forse una coincidenza, ma 48 ore prima del licenziamento, il presidente d’onore del País, Juan Luis Cebrián (un personaggio che può ricordare Eugenio Scalfari, per intenderci), nonché grande amico di González, aveva pubblicato un editoriale sulla gestione governativa del coronavirus che un macellaio avrebbe trovato poco sottile.
In quel testo, Iglesias era descritto come un «populista pieno di contraddizioni», Sánchez era criticato e si chiedeva un ritorno alle (noiose) acque del «bipartidismo», con un centrosinistra e un centrodestra moderati.
Alla fine dei conti, è quella la scelta. Vi ricordate di quei bei tempi quando il mondo girava attorno alla scelta del posto dove andare in vacanza oppure su chi avrebbe segnato la domenica? La chiamavamo noia. E ci manca così tanto.