Il ponte sullo Stretto è ritornato di moda da quando la riflessione pubblica sulle politiche di rilancio economico che costituiscono la condizione effettiva per ottenere le risorse che l’Europa ha messo a disposizione degli stati con il recovery fund ha chiamato in causa il ruolo centrale della spesa pubblica in infrastrutture strategiche come motore “keynesiano” dello sviluppo.
Come sappiamo ormai da mesi giacciono oltre 100 miliardi euro già investiti nei precedenti piani di intervento statali sul dissesto idrogeologico, sull’alta velocità, sull’ammodernamento della rete ferroviaria e stradale, sulla digitalizzazione, sul patrimonio edilizio, che sono da anni fermi per lungaggini burocratiche, per contrasti tra le aziende partecipanti agli appalti e per veti incrociati della politica stretta tra la morsa di un ambientalismo radicale e ideologico, gli interessi del ceto politico locale e il mito anticapitalistico della decrescita felice di marca populista.
A questi elementi se ne aggiunge un altro di notevole rilievo che riguarda il rapporto tra le politiche di rilancio infrastrutturale e la questione meridionale, perché è del tutto evidente che sia il Sud il luogo di elezione di questo nuovo “intervento straordinario”, perché non ci potrà essere nessuna politica di cambiamento strutturale dell’economia italiana senza ridurre il divario territoriale che separa le regioni italiane e le aree del paese.
In questo campo si tratta non tanto di elaborare nuove proposte, quanto piuttosto di attuare quello che è stato progettato nell’ultimo ventennio da vari governi in materia soprattutto di reti infrastrutturali che riguardano metropolitane urbane, l’Alta velocità nelle regioni meridionali e in Sicilia, l’asse stradale ionico, gli aeroporti, Bagnoli, e infine il “collegamento stabile” tra la Calabra e la Sicilia.
Come era chiaro fin da quando il governo Prodi ne avvio la progettazione, nessun collegamento stabile è possibile senza un moderno ponte sul quale possano passare oltre alle auto, i convogli indivisibili delle “Frecce” e raggiungere Palermo e Catania. Ma senza poter raggiungere la Sicilia ogni progetto di estensione delle rete dell’Alta Velocità nel sud risulterebbe assolutamente monco e parziale perché si ridurrebbe solo al collegamento tra Napoli e Bari-Lecce-Taranto.
Solo questi interventi già programmati di infrastrutturazione delle regioni meridionali mobiliterebbe decine di miliardi di euro che significherebbero uno straordinario sostegno allo sviluppo delle industrie meridionali e all’occupazione e un prepotente acceleratore di bonifiche territoriali e ambientali di grande rilievo, ma anche un volano per investimenti privati.
Ovviamente l’intervento che ha assunto maggiore rilievo simbolico è stato il Ponte sullo Stretto, una via aerea di oltre tre chilometri in un’unica campata sorretta da due pilastri, uno in Calabria e l’altro in Sicilia, che entrerebbe nel novero dei grandi ponti a livello mondiale creerebbe tra Messina e Reggio una vera e propria area metropolitana.
Come affermò Andrea Camilleri, forse l’intellettuale più noto della Sicilia del nostro tempo, il ponte «renderà la Sicilia meno isola, meno orgogliosa e forse meno malinconica. Finalmente riusciremo a eliminare quel senso di maledetta o benedetta sicilitudine: quel senso di isolamento e di solitudine nel quale molti di noi si sono trovati senza desiderarlo».
Tutto facile dunque? Per nulla, anzi sul ponte si concentrarono ben presto strali sempre più numerosi e acuminati provenienti soprattutto dal vasto e variegato campo della sinistra isolana e nazionale in nome di quel permanente intreccio tra un malinteso ambientalismo, una visione negativa di ogni intervento modernizzatore visto sia come veicolo di infiltrazione mafiosa e di corruzione politica, sia come occasione per l’intervento di un capitalismo predatore, che si arricchisce alle spalle della società.
Su questo si scaricarono poi gli odi anti berlusconiani, quando i governi di centro-destra ripresero il progetto prodiano, e quelli dei “nemici” dell’Alta Velocità che si sono riconosciuti nell’anticapitalismo ambientalista dei No Tav della Val di Susa.
Un corto circuito decennale tra appassionati cultori della sicilitudine e dell’anticapitalismo antagonista, che spinse il governo Monti ad abbandonare il progetto, perdendo di vista quello che sempre Camilleri aveva sostenuto in una famosa intervista a Repubblica del 2001: «Sono profondamente convinto che il Ponte potrebbe servire, e di molto, allo sviluppo economico della Sicilia. Non a farci diventare italiani, come è stato inopportunamente detto, perché quello, nel bene e nel male, lo siamo già».
La sola ipotesi che possa ritornare in campo questo progetto ha rinfocolato gli animi dei tradizionali sostenitori del “no” come filosofia politica, come palingenesi morale e come chiave di lettura della realtà. In questo contesto non poteva non comparire Marco Revelli uno dei maggiori esponenti di questa attitudine mentale e uno dei suoi più raffinati cultori che in un articolo e in una serie di post sui social ha riportato in auge tutto l’armamentario dell’antagonismo No Tav e del pauperismo anti capistalista, che anima le correnti ultraminoritarie della sinistra radicale.
Per Revelli il Ponte è una sintesi tra un «demenziale progetto mangiasoldi che interessa agli affaristi e alle cosche» e un’opera «criminale» come il resto dell’Alta Velocità. Dopo aver superato lo sgomento per questa definizione, mi è venuta in mente la riflessione freudiana sulla coazione a ripetere.
Si tratta della tendenza inconscia che in alcuni individui può trasformarsi in un disturbo della personalità che spinge a reiterare situazioni dolorose e frustranti in maniera sempre identica a se stesse, indipendentemente dal fatto che questi fenomeni abbiano a che fare con dati di fatto reali e nonostante che continuare a sostenere tesi sempre distanti dal comune sentire e cervellotiche nel loro fondamento costitutivo, debba produrre indubbie sofferenze interiori, lenite in parte dal consenso di piccole conventicole radical-chic.
Il ponte nella visione di Revelli e di altri neoluddisti del XXI secolo è come la famosa pipa di Magritte, non è un ponte, cioè un manufatto industriale che può aiutare la Sicilia a entrare in relazione più stretta e feconda con il resto del paese e con l’Europa, che può accelerare il processo di modernizzazione dei trasporti isolani, su cui si può e si deve discutere per farlo nel migliore dei modi; è invece un simbolo del male, che si deve abbattere, combattere, ovviamente con le armi della fede, come il treno agli inizi dell’Ottocento o gli aerei agli inizi di quello successivo, o come le trivelle qualche anno fa.
Poco importa se nel mondo si stanno costruendo decine di ponti che stanno rivoluzionando la mobilità di milioni di persone, poco importa se oggi disponiamo di tecnologie avanzate capaci di garantire la costruzione di questi manufatti in maniera sicura e sostenibile anche in zone sismiche, poco importa che il ponte significhi togliere dallo Stretto migliaia di navi inquinanti; poco importa cioè che sia un ponte, cioè un opera umana utile alle persone.
Quel che importa che si possa fare scattare la coazione a ripetere del rifiuto pregiudiziale, in nome del solito piagnisteo meridionalista, del solito monito antimafia dei tanti intellettuali che popolano le aule universitarie e le redazioni dei giornali, della ricorrente cultura del “ci vuole ben altro” senza dire mai cosa e come, del riflesso condizionato antindustrialista.
Poi tutti gli “anti” sanno benissimo che questi polverosi lai non avranno nessun effetto e che se il ponte non si farà dipenderà da altre ragioni, quasi tutte poco nobili, collocate nel campo degli interessi corporativi da tutelare, dell’ignavia della politica, degli animal spirits conservatori che animano la destra e la sinistra nel Sud, come a Roma. Ma intanto la coazione a ripetere avrà un grande presenza nei finti dibattitti in tutti i media che ben presto si riapriranno sul tema, stimolando la moltiplicazione di atti di contrizione sui mali del sud.