Alcuni si erano stupiti dell’apertura con cui Giuseppe Conte, nella conferenza stampa del 3 giugno, aveva accolto l’idea del ponte sullo Stretto, rilanciata poco prima da Dario Franceschini in un’intervista al Corriere della Sera, e si sono forse tranquillizzati leggendo la lieve frenata di ieri, nell’intervista del presidente del Consiglio a Repubblica («Sono favorevole a tutto ciò che ha una razionalità economica, che risponde all’interesse generale e fa bene al Paese. Quindi ragionare oggi del Ponte dello Stretto è una fuga in avanti»).
Ma i più, specialmente dalle parti del Partito democratico, erano certamente troppo concentrati a seguire le sue quotidiane circonvoluzioni sintattiche sul Mes per notare altri dettagli. «Possiamo immaginare un momento in cui ci confronteremo tra le forze di maggioranza e in parlamento anche sull’eventualità che convenga o meno all’Italia attivare il Mes», è arrivato a dire ieri Conte (possiamo-immaginare-un-momento-in-cui-ci-confronteremo-anche-sull’eventualità-che-convenga-o-meno: e ancora se la prendono con il povero Aldo Moro per quelle innocue, e al confronto oserei dire lineari, convergenze parallele).
E così, vuoi perché distratti dall’ultima trovata del ponte sullo Stretto, vuoi perché con gli occhi sempre incollati al borsino del Mes, in attesa di capire quanto ancora dovremo restare appesi ai capricci del Movimento 5 Stelle prima che il governo possa dire chiaro e tondo che sì, se ci vogliono proprio prestare 36 miliardi di euro a interessi prossimi allo zero per sistemare la sanità, schifo non ci fanno, nessuno si è accorto della vera novità di questi ultimi giorni.
Eppure era scritta a chiare lettere nella stessa intervista in cui Franceschini rilanciava l’idea del ponte: alta velocità in tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia (il ponte era in effetti solo una conseguenza di questa scelta), proposta tranquillamente ripresa da Conte in conferenza stampa, laddove, elencando le infrastrutture prioritarie, quelle da fare adesso, prima di cominciare a discutere dell’eventuale ponte, inseriva senza fare una piega il «completamento dell’alta velocità».
In altre parole, dopo avere passato praticamente un anno, dall’estate del 2018 a quella del 2019, tra valutazioni costi-benefici, commissioni di esperti e task-force (vi eravate forse dimenticati della commissione Ponti?), rischiando di farci cadere il suo primo governo, e tutto per una tratta già analizzata, valutata e votata cento volte, ecco che all’improvviso, praticamente per tutto il resto della penisola, non c’è più motivo di perdersi in calcoli, nominare commissioni, analizzare costi e benefici.
E questo, attenzione, non in seguito a una qualche discussione, dibattito interno, valutazione critica o autocritica. Macché. Esattamente come per il Mes che ieri era lo sterco del diavolo e domani sarà forse il nettare degli dei, ma dopodomani chissà: se Alessandro Di Battista e magari anche Davide Casaleggio si mettessero di traverso, ad esempio, i 36 miliardi del Meccanismo europeo di stabilità rischierebbero seriamente di finire nello stesso cassetto dello ius soli, delle modifiche ai decreti sicurezza e di tutto il programma di governo del Partito democratico.
A dimostrazione del fatto che nel Movimento 5 stelle non c’è nessuna evoluzione, né per la verità alcuna involuzione, semplicemente perché non c’è niente di nuovo rispetto all’interminabile spettacolo di cabaret da cui il partito è nato.
Mes, Tav e Ponte sullo Stretto sono termini intercambiabili, battute buone per prendere l’applauso del pubblico prima di passare alla gag successiva. Come lo sono tutte le cento proposte della task force Colao (dove pure si parla di «potenziare il sistema di alta velocità», sviluppandola e completandola sulla dorsale adriatica e sulla dorsale tirrenica, «in modo che arrivi fino in Sicilia»).
Task force voluta e nominata da Conte, e il cui denso rapporto si potrebbe riassumere in una scheda di una sola riga: smantellare l’intero programma del Movimento 5 stelle, dalle politiche del lavoro (come il cosiddetto decreto dignità) alle infrastrutture.
Ragion per cui al termine di due mesi di intenso e gratuito impegno, le autorevoli personalità chiamate a dare una mano in un momento così difficile, si sono sentite dire dal presidente del Consiglio e da buona parte del governo che il loro è al più un «utile contributo», come si dice nelle assemblee di partito quando si vuole rabbonire un seccatore che non vuole saperne di star zitto, e lo si rassicura dichiarando accolto il suo imprescindibile documento.
Auguriamoci che le cose per l’Italia si mettano presto al bello, nonostante tutto, perché la prossima volta che avremo bisogno di chiamare a raccolta le migliori intelligenze del paese, se davvero sono tanto intelligenti, mi sa che nemmeno rispondono al telefono.