Romagna miaCinquanta sfumature di piadina

La ‘vera ricetta’ non esiste, e come per tutte le preparazioni tradizionali, anche la sfoglia di farina di grano tenero con strutto o olio d’oliva, bicarbonato o lievito, sale e acqua dà adito a diverse linee di pensiero e versioni che cambiano da zona a zona. Animando appassionati dibattiti

«Il pane, anzi, il cibo nazionale dei Romagnoli»: Giovanni Pascoli non ha dubbi, le ha persino dedicato una poesia, e chi siamo dunque noi per contraddirlo. La Romagna sarebbe meno Romagna senza la piadina, probabilmente (azzardiamo!) manco sarebbe più Romagna. C’è qualcosa di mitologico e di perfetto in quella sfoglia di farina di grano tenero con strutto o olio d’oliva, bicarbonato o lievito, sale e acqua, che un tempo veniva cotta su un piatto di terracotta, detto teglia (teggia in romagnolo), su lastre di metallo, o ancora su lastre di pietra refrattaria chiamate testi (tëst in dialetto). Il termine piada – insieme alle declinazioni locali piêpièdapìdapjida – da cui il diminutivo piadina, deriva molto probabilmente dal greco pláthanon, ‘piatto lungo, teglia’: arrivato nella penisola italiana attraverso l’Esarcato Bizantino, poi divenuto, in latino medievale, plàdena o plàtena e infine piàdena, ‘vaso, larga scodella’ in dialetto settentrionale.

Le prime testimonianze della piadina in terra romagnola risalgono al 1200 a.C.: furono con molta probabilità gli Etruschi a insegnare alle popolazioni italiane locali come cucinare i cereali – in particolare, sotto forma di un sostituto del pane di forma circolare –, influenzando in tal modo pure la prima gastronomia della nascente Roma. Nel IV secolo a.C., quando la coltivazione del grano sostituì gli altri cereali e fece la sua comparsa il primo pane lievitato, la produzione delle focacce si ridusse fortemente; tuttavia, la preparazione delle piade azzime sotto la cenere rimase uno dei cibi preferiti dagli antichi romani, confermandosi così elementi fondanti sia dei banchetti dei ceti più abbienti, sia delle cerimonie religiose. E con gli antichi romani arrivano anche le tracce letterarie: fu proprio Giovanni Pascoli a rinvenirle all’interno dell’Eneide di Virgilio, quando nel VII canto il poeta utilizza il costrutto exiguam orbem per riferirsi a un disco sottile che, una volta abbrustolito, veniva diviso in larghi quadretti.

Con la caduta dell’Impero Romano e l’avvento delle Invasioni Barbariche, alcune abitudini alimentari delle popolazioni della penisola vennero modificate, ma la coltura dei cereali e la produzione del pane restarono componenti centrali delle loro diete. Negli anni della peste nera, intorno alla metà del XIV secolo, la classe contadina non ebbe più la possibilità economica di mangiare il pane lievitato e tornò così al consumo di polente, di farine d’orzo e di focacce azzime, realizzate con un misto di cereali meno pregiati, legumi secchi e ghiande. Risale proprio a questo periodo (nel 1371, a voler essere precisi) il primo documento storico conosciuto che parla della piadina: nel rapporto statistico Descriptio provinciæ Romandiolæ, il cardinal legato Anglico de Grimoard la cita (pare che tra i tributi che la città di Modigliana doveva pagare alla Camera Apostolica figurassero «due piade») ne fissa la ricetta – «Si fa con farina di grano intrisa d’acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po’ di strutto».

Durante il Rinascimento l’arte culinaria si elevò grazie a personalità del calibro di Cristoforo di Messisbugo, che renderà famosa la cucina degli Este a Ferrara: il cibo allietava gli esigenti palati dei nobili che si riunivano di fronte a pantagruelici banchetti, e questa nuova primavera gastronomica, insieme alla diffusione della coltivazione del grano e della lievitazione del pane, relegò per secoli la preparazione della povera piadina ai momenti di carestia e ai ceti più umili. È con l’inizio del XX secolo che la piadina ebbe un grande rilancio, grazie soprattutto alla presenza della farina di mais, che – mischiata a quella di grano tenero per questioni più economiche che culinarie – consentiva di ottenere degli ottimi risultati a costi contenuti. Le bambine già all’età di cinque o sei anni imparavano a tirare la sfoglia e a cuocere nel testo fragranti piadine, farcendole con il tradizionale salame fatto in casa, la salsiccia ai ferri, i cavoli lessati conditi con olio, aglio e rosmarino, la coppa di testa. La piadina poi, insieme alle altre specialità romagnole, iniziò a conquistare i turisti negli anni ’40 e ’50, quando cominciarono ad apparire lungo le strade statali che portavano al mare i primi chioschi che vendevano le piadine preparate al momento e gustate con la porchetta di maiale, le salsicce cotte alla brace, i cavoli, i pomodori e le melanzane gratinate – tradizione che è proseguita sino a oggi.

Ora sono davvero poche le famiglie romagnole che continuano a preparare la piadina in casa, lasciandola impastare al momento dalla azdora di turno: la maggioranza preferisce comprarla già cotta, scaldandola sulla piastra bollente, o acquistarla in uno dei tanti chioschi dove invece viene stesa e preparata come una volta. Trattasi di street food? Beh, ovviamente sì, sebbene il romagnolo Doc alzerebbe un sopracciglio davanti a una simile definizione. Ciò che è certo, è che la sua vera essenza si perde in mille interpretazioni, in mille ricette, in mille ripieni completamente differenti l’uno dall’altro, dando vita a una varietà tale che diventa difficile stabilire con sicurezza quale sia la ‘vera’ piadina romagnola: nella tradizione non esiste – in barba all’agognato e contestato marchio IGP ottenuto nel 2014 – una ricetta autentica rispetto alla quale le restanti siano sbagliate, bensì diverse linee di pensiero, diverse versioni che cambiano da zona a zona e che animano appassionati dibattiti. Di base possiamo dire che la piadina, dalle provincie di Ravenna e Forlì-Cesena – più spessa e di diametro più contenuto –, si assottiglia e si allarga fino a diventare la piada a Rimini, Riccione e in generale nel sud della Romagna. Non è soltanto una questione terminologica, perché c’entra un ingrediente in particolare: nella piadina si mette il lievito o un pizzico di bicarbonato, che nella piada diventa facoltativo, rendendola tendenzialmente azzima. La differenza sostanziale tra le due tipologie sta nelle dimensioni: la riminese/riccionese ha uno spessore che va da 1 a 3 mm circa per un diametro variabile dai 20 ai 25 cm circa, mentre la piadina delle Terre di Romagna ha uno spessore maggiore – dai 3 ai 6 mm circa – e un diametro che va dai 15 ai 20 cm circa.

Poi ci sono i crescioni (o cassoni se ci si trova nel sud della Ro­magna), una sorta di sfoglia ripiegata e farcita. In passato veniva preparato insieme alla piadina: con lo stesso impasto ma di differente spessore (più sottile), si faceva un grosso raviolo ripieno di erbe selvatiche, rosolacci o spinaci, biete o radicchi, cicoria o ortiche. Ancora, si usavano zucca o patate, soprattutto nelle zone collinari, e formaggi. Solo di recente sono arrivati pomodoro, funghi, mozzarella, speck, brie, nutella e tutta quella miriade di ingredienti che compaiono fra le proposte affisse ai baracchini a righe colorate che si incontrano lungo le strade della Romagna. Infine, i chioschi: l’esperienza 100% romagnola si ha mangiando la piadina, la piada o il crescione qui, magari sul ciglio di una statale, in uno dei tanti chioschi tradizionali colorati a bande verticali con colori standard per varie località (bianchi e rossi a Forlì e Cesena e bianchi e verdi a Ravenna, sebbene oggi purtroppo la discriminante cromatica sia andata perdendosi).

Impossibile racchiudere nelle poche battute di un articolo il mondo racchiuso all’interno di quel disco di farina, strutto, bicarbonato, sale e acqua, le discussioni che ha generato, i litigi che ha sedato e gli animi che ha infuocato. Meglio ricorrere a una citazione, o, meglio, a un verso del poeta romagnolo Aldo Spallicci: «Oh, la piadina! / Odore della casa che arriva quassù / e chi la mangia sente aria di Romagna». Che non è esattamente aria… è proprio profumo.

 

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