ItalianitàPasta: 5 miti da sfatare

È sicuramente la più amata dagli Italiani. E come tutti i VIP, la pasta è spesso vittima di luoghi comuni e di “fake news”. Spazzarli via per conoscere la verità è il primo passo per imparare a distinguere la qualità

Sulla pasta si dicono un sacco di cose. Alcune sono parte del pensiero comune, di quel bagaglio di opinioni e concetti che forma la filosofia culinaria di ogni famiglia italiana. Sono nozioni che impariamo insieme all’arte di cucinare la pasta: quanta buttarne in pentola, quanto cuocerla, come sceglierla. Altre sono “grandi tematiche”, di quelle che animano le discussioni sui social e rimbalzano sui giornali e nei programmi di inchiesta: opinioni, informazioni, dati che riguardano le varietà di grano, la loro provenienza, le tecniche produttive e altri dettagli tecnici. Sulla pasta si dicono tante cose, dunque. Ma non tutte sono vere. Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza con la guida di qualcuno che se ne intende davvero, perché la pasta la fa: Riccardo Felicetti. Il suo pastificio è attivo dal 1908 a Predazzo, nel cuore delle Dolomiti, e da allora fa della qualità una bandiera. In generale, sostiene Felicetti, è bene «evitare contrapposizioni tra chi sceglie un percorso produttivo e chi un altro. Origine della materia prima, trafilatura, essiccazione sono un esempi di alternative possibili, ma non c’è bene contrapposto al male: c’è invece una diversificazione profonda che consente scelte differenti e porta alla grande varietà della pasta italiana».

Il grano: meglio buono

«Il grano è meglio quello buono» sintetizza Felicetti, che spiega: «deve avere le caratteristiche giuste, scelte dai pastai e dai mugnai per fare la pasta come si è scelto di farla. Ci sono dei parametri per valutare la qualità del grano, e sono l’indice proteico, la quantità di glutine contenuta, la tenacia del glutine, il colore. Sulla base di questi parametri, ogni pastaio fa la sua scelta. Meglio scegliere grano italiano, ma non perché è il migliore: è giusto sostenere l’agricoltura italiana, ma non è vero che c’è una supremazia qualitativa del prodotto italiano. Alcuni fanno questa scelta, ma occorre ricordare che in Italia non si coltiva abbastanza grano per fare tutta la pasta che produciamo. Noi usiamo il 95% di grano italiano e il 5% di Kamut, particolare varietà nordamericana legata a un progetto che abbiamo scelto di sostenere dal 2000. Il grano infatti è troppo spesso inteso come un bene slegato dalla terra da cui nasce. Ma se parliamo del Senatore Cappelli o, appunto, del Kamut, quella filiera che collega l’agricoltore al mugnaio e poi al pastaio si disegna già nella mente di chi acquista il prodotto». Ma Felicetti non si ferma qui. Sul grano circolano davvero tante informazioni sbagliate, a partire da quelle sul grano OGM. «Il grano duro OGM non esiste. È troppo complesso andare a intervenire sul genoma del grano duro. L’unico grano duro OGM che si può trovare è quello contaminato da mais o da soia». E a proposito di contaminazioni: «piuttosto che avere un grano contaminato da insetti o da altre piante che non sono grano duro, si usano, anche in Italia, prodotti chimici per aiutare il lavoro manuale. Prodotti che nella pasta non si ritrovano, o si ritrovano in tracce, ben al di sotto delle soglie massime consentite: bisogna fidarsi dei limiti legali, tenendo presente che in Italia il grano usato è tutto analizzato e ampiamente nei limiti consentiti».

La macinatura: meglio a pietra

«La macinatura a pietra è una lavorazione di antichissima memoria, che non dà la possibilità di avere un grano pulito come quello che si ottiene con altre procedure che si sono sviluppate nel corso dei secoli, un grano “raffinato”, non in senso negativo, ma perché adatto ai gusti più raffinati e alle esigenze del cliente contemporaneo. Nei mulini moderni si seguono procedimenti di decorticazione a lenta macinazione, con più passaggi che consentono di estrarre solo la parte nobile del chicco. Diversamente la macinazione a pietra prevede un solo passaggio, per avere una semola integrale o semi integrale, una semola che ha molto più corpo, è più ricca di fibre, di nutrienti, ma che perde il sapore della pasta tradizionale».

La trafila: meglio al bronzo

«Sicuramente la trafila fa la differenza – spiega Felicetti – ma non necessariamente quella al bronzo è meglio di quella al teflon. Dipende da che risultato si vuole ottenere, considerando che in generale la pasta trafilata al teflon rilascia meno amido e tiene di più la cottura. Certo non si può servire pasta trafilata al bronzo in una mensa aziendale dove la pasta va precotta e tenuta in caldo: alla fine avrei un piatto di qualità scadentissima. Viceversa uno chef stellato preferisce non offrire degli spaghetti trafilati al teflon, magari non perfettamente essiccati, che non prendono perfettamente il condimento. Anche in casa: se devo fare una pasta per quattro persone scelgo quella trafilata al bronzo, se ho una spaghettata per 50 ospiti, meglio il teflon. Anche noi di Felicetti abbiamo linee diverse per esigenze diverse: Monograno è trafilata al bronzo, la linea Speciale Gastronomia, pensata per la ristorazione, è trafilata al teflon».

L’aspetto: se è pallida non è buona

«Non è detto che una pasta grigia, dal colorito “smorto”, sia meno buona di una gialla e lucente. Le caratteristiche che l’hanno resa così non sono in antitesi con quelle che ne determinano la qualità e il sapore. Spesso poi, una volta buttata in acqua, la pasta riprende vita e riacquista il colore della semola». Ma l’osservazione è comunque importante, perché permette di svelare dei difetti. Felicetti ce ne illustra qualcuno a cui prestare attenzione. «Le bolle biancastre sugli spaghetti e le crepe sulla pasta corta segnalano che il procedimento di essiccazione è stato fatto male. Del resto questo è un passaggio delicatissimo: per noi, in montagna, ottenere un prodotto uniforme, che cuocia sempre nello stesso tempo e abbia sempre le stesse caratteristiche, significa “compensare” gli sbalzi termici di un clima, tenendo presente che di notte ci possono essere 10 gradi sotto zero, e al mattino 10 sopra lo zero». Un ostacolo che si supera con l’esperienza e la sapienza del pastaio.

La cottura: ben cotta è più digeribile

«Più la tieni in acqua, più la pasta assorbe acqua. Così durante la digestione i succhi gastrici si diluiscono, ma soprattutto gli amidi contenuti nella pasta si gelatinizzano, diventando più difficili da digerire. Meglio al dente, tenendo presente che il concetto di “al dente” varia: 60 milioni di Italiani, 60 milioni di modi diversi di intendere la cottura della pasta. A Roma la pasta al dente è dura come un chiodo, a Bolzano è morbida. Ma le variabili non sono solo regionali: nessuno serve una lasagna o una tagliatella al dente, ogni formato ha le sue esigenze. E ogni condimento: un sugo croccante vorrà una pasta più morbida».

 

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