Questa tremenda bufera della pandemia da Covid-19 che ha devastato le economie di tutti i Paesi e che ci ha costretti in quarantena e alla sospensione di gran parte delle nostre attività dovrebbe sperabilmente averci indotto a una riflessione più attenta sulla situazione in cui siamo e sulle direzioni da prendere quando la crisi sarà finita.
Poiché l’integrazione tra l’Italia e l’Unione Europea è diventata nel corso dei decenni sempre più stretta, ma d’altra parte in questi ultimi anni il rapporto tra l’Italia e l’Europa è stato molto dibattuto e le voci euroscettiche sia nella classe politica, che nel pubblico, si sono fatte sempre più vivaci, è su questo aspetto della situazione del nostro Paese che conviene riflettere.
Lo farò per chiarezza in modo volutamente schematico toccando tre punti:
a. il rapporto tra l’Italia e l’Europa,
b. l’adeguatezza dell’assetto attuale dell’Unione Europea;
c. la posizione che l’Italia dovrebbe tenere in questo contesto.
L’Italia non può fare a meno dell’Europa
Sul piano economico l’Italia, Paese con scarsità di materie prime e una spiccata vocazione manifatturiera in settori caratterizzati da alta qualità del prodotto (e anche con agricoltura vocata non a produzione estesa di base ma a prodotti di alta qualità), ha bisogno di mercati ampi e ricchi. In un contesto internazionale nel quale le spinte protezionistiche delle grandi potenze economiche stanno crescendo, lo spazio europeo integrato rappresenta una importante garanzia.
Sul piano politico l’Italia, media potenza con debole potenziale militare e inserita in un’area geopolitica ad alto tasso di turbolenza rischia seri fallimenti (e svantaggiose competizioni con altri Paesi di media taglia) se agisce da sola (la storia del colonialismo italiano e del ventennio mussoliniano lo insegnano a iosa). Ha invece bisogno di operare all’interno di un concerto pacifico e coeso di Paesi accomunati da principi e culture comuni.
L’Italia può dare molto all’Europa
L’Italia contribuisce significativamente con il suo potenziale industriale e agricolo all’economia europea. Molto importante è anche l’apporto scientifico e culturale del nostro Paese; ne sono una testimonianza le migliaia di giovani ricercatori italiani di talento che operano nelle università e nei centri di ricerca di tutto il continente.
Per non parlare dell’enorme patrimonio artistico che conservato con cura è a disposizione dell’Europa e del mondo per studio, godimento culturale e turismo. Sul piano politico-strategico e commerciale la posizione dell’Italia al centro del Mediterraneo è un importante atout per tutta l’Europa continentale.
L’Italia deve restare un soggetto attivo dell’Unione Europea
È facile concludere che l’Italia senza l’Europa sarebbe molto più fragile ed esposta a rischi economici e politico-strategici. L’Europa senza l’Italia sarebbe anch’essa decisamente meno ricca, meno forte. Possiamo quindi dire che la scelta operata nel primo dopoguerra dalla classe politica italiana di legare strettamente il Paese a un processo di integrazione continentale è stata una scelta strategicamente giusta non solo allora ma tuttora. Una di quelle scelte tornare indietro dalle quali vorrebbe dire entrare in una pericolosa terra incognita.
Poiché però la storia ci insegna che in presenza di determinate condizioni critiche gli Stati possono essere indotti a compiere scelte avventate le cui conseguenze non sono adeguatamente previste, occorre oggi operare perché una simile possibilità che con leggerezza viene prospettata da alcuni politici e intellettuali sia scongiurata.
Affinché, dopo la sciagurata Brexit, siano frenate altre spinte centrifughe è necessario porsi con serietà delle domande sullo stato attuale dell’Unione Europea. Questo esame è certo reso più necessario dallo stato di crisi nel quale l’Italia e il continente sono caduti per effetto della pandemia.
L’Unione Europea come è configurata attualmente è gravemente al di sotto dei suoi compiti
Alle tre crisi degli anni passati (economico-finanziaria, migratoria e di sicurezza esterna a Est e nel Mediterraneo) l’Unione Europea ha reagito con grave ritardo e per lo più con mezzi insufficienti. In apparenza la risposta alla crisi economico-finanziaria è stata più massiccia (LTROs e QE da parte della Bce, Mes degli Stati), in realtà è mancata una politica economica e fiscale orientata al rilancio dell’economia europea (che infatti è rimasta indietro per es. a quella americana).
Nel settore dell’immigrazione e della sicurezza esterna l’azione Europea è stata praticamente inesistente (salvo l’accordo sui migranti con la Turchia del quale si vedono oggi le conseguenze negative; e le sanzioni alla Russia per l’Ucraina). Le conseguenze di queste carenze si sono fatte sentire nell’accresciuto divario economico-finanziario tra i Paesi europei e nell’acuirsi delle instabilità ai confini dell’Unione.
Perché l’Europa è mancata?
Una spiegazione semplice: l’Europa è un gigante economico (la seconda economia del mondo quanto al PIL, sia in termini nominali che di PPP; seconda anche come potenza commerciale; seconda moneta internazionale), ma rimane un nano politico. In sostanza un enorme mercato, ma con un sovrano politico debolissimo.
La UE è sostanzialmente un sistema federale rovesciato. Il potere federale centrale è munito di risorse finanziarie e amministrative debolissime (il bilancio UE è poco più dell’1% del PIL Europeo1, i dipendenti della Commissione europea circa 34.000 – il comune di Roma ne ha 24.000) e i suoi poteri sono sostanzialmente regolatori e solo marginalmente distributivi e redistributivi.
Le risorse finanziarie restano accentrate negli Stati membri (il bilancio di ciascuno di questi oscilla intorno al 40% del PIL nazionale). Il meccanismo politico di decisione centrale è fortemente policentrico: lo spazio decisionale della Commissione, che pur oggi ha una base democratica nel Parlamento europeo eletto direttamente, rimane troppo schiacciato dal Consiglio europeo dei capi di governo e degli Stati, i cui membri fortemente autonomi tra di loro rispondono prevalentemente alla propria politica domestica.
Il processo di costruzione e formulazione dell’interesse comune europeo (e quindi delle politiche che ne dovrebbero scaturire) avviene prevalentemente attraverso i 27 (prima 28) processi di rappresentanza nazionale che hanno al centro ovviamente gli interessi e le visioni nazionali. La visione comune è costruita solo in seconda battuta attraverso processi negoziali tra i governi, lenti e faticosi e sottoposti a forti poteri di veto. I singoli Stati tengono stretti i cordoni della borsa europea per non privarsi di risorse.
Un assetto inadeguato nel contesto economico, sanitario e geopolitico odierno
Questo assetto adatto forse per un mercato di dimensioni minori e per un quadro internazionale fortemente strutturato (come quando l’UE era nella sfera chiaramente definita dell’Alleanza occidentale guidata dagli USA) oggi è gravemente insufficiente. Le dimensioni acquisite dal mercato europeo (come mostra l’esperienza di questi anni) sono tali che sono cresciute anche fortemente le esigenze di «governo» di questo mercato e dei suoi fallimenti (tutti i mercati sono imperfetti).
Le risorse e i poteri della Commissione europea sono su questo piano ancora del tutto inadeguati. Solo la Bce sotto la guida di Draghi ha fatto passi avanti importanti. Ma la Banca centrale non basta. Come platealmente vediamo oggi nel momento in cui una pandemia ha azzerato (temporaneamente) la vita economica, abbiamo bisogno di politiche fiscali, economiche e industriali comuni se vogliamo che la ripresa nel continente sia omogenea e non a macchie di leopardo.
La pandemia ci ha anche mostrato che quella libertà di movimento che ha costituito uno dei beni comuni più rilevanti raggiunti in questi decenni può rivelarsi assai fragile e soggetta alle reazioni difensive degli Stati se non esiste una autorità europea sufficientemente autorevole per metterla al riparo da eventi imprevisti e governarla.
Lo scenario internazionale, con gli Stati Uniti pervasi da spinte isolazioniste, la ripresa della politica di potenza della Russia di Putin, una vasta zona di instabilità e conflitto sul fianco sud e sud-orientale dell’Europa, è fonte di ripetute tensioni e sfide che trovano un mercato gigante/nano politico come la UE regolarmente in affanno e incapace di dare risposte politiche significative.
Come ha mostrato anche nei mesi passati il recrudescente problema dei migranti siriani la UE deve affrontare un problema di confini, cioè un problema di autorità politica, non economica, e non sa come farlo (non bastano i milioni che la UE promette oggi alla Grecia!).
Che fare e come l’Italia può contribuire a questa situazione?
Se questa diagnosi è giusta è chiaro che c’è bisogno di un cambiamento non marginale ma importante della UE. Un cambiamento che comporti un deciso incremento delle risorse, ma ancor prima delle capacità di costruire una visione comune dei problemi (e non 27 visioni diverse) e poi un rafforzamento delle capacità decisionali comunitarie. Occorre subito dire che questo cambiamento è tutt’altro che facile.
Gli fa ostacolo l’assetto politico del sistema europeo fortemente dipendente, come si è detto, dai processi nazionali di rappresentanza e decisione. È difficile orientare questo complesso di decisori verso il cambiamento in assenza di una leadership decisa che abbia chiari gli obiettivi ma anche la capacità di convincere e di costruire una coalizione di volenterosi.
L’obiettivo deve essere chiaro. Il federalismo rovesciato (con il centro di gravità negli Stati) deve essere almeno in parte riequilibrato a favore del centro federale. Per questo non bastano le pur importanti capacità di intervento sviluppate dalla Banca centrale europea nella gestione Draghi, anche perché come abbiamo visto con la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca questo rafforzamento di funzioni di supplenza è soggetto a contestazioni nazionali non indifferenti.
C’è bisogno di rafforzare il complesso istituzionale Parlamento europeo + Commissione europea (accompagnato naturalmente dalla Bce). C’è 139 bisogno di una Commissione capace di elaborare una visione più innovativa dei bisogni comuni dell’Unione, con maggiori risorse proprie e meglio distribuite tra gli obiettivi strategici (magari restituendo «in cambio» e in un’ottica di sussidiarietà alcuni settori non strategici ai Paesi membri).
La discussione in corso sul bilancio pluriennale della UE e sul Recovery Fund da appoggiare al primo per contrastare gli effetti della pandemia è oggi cruciale. Stupisce che la politica italiana in questo contesto si accanisca a discutere del Mes (peraltro da non disprezzare in presenza di condizioni ben definite) e presti così poca attenzione al ben più importante Recovery Fund!
È essenziale che questa visione metta a fuoco che il mercato unico, con tutta la sua importanza storica per la UE, è solo una componente di questa. La UE deve essere vista sempre più come una comunità politica (con i suoi problemi di coesione interna, di confini, di eguaglianza ecc.) e non solo come la tutrice del mercato. Politiche sociali redistributive per assicurare un minimum sociale soprattutto in fasi di crisi devono essere messe in campo. La politica estera comune deve fare passi ambiziosi in avanti (prendendo seriamente coscienza del fallimento nelle crisi delle politiche estere dei singoli Stati).
Riflettere sugli strumenti e sui tempi dell’azione politica
Che cosa si deve e si può fare in Italia come negli altri Paesi:
a) È necessario un cambiamento della prospettiva: dal «che cosa può fare l’Europa per il mio Paese» a «di che cosa ha bisogno l’Europa che è patria comune anche del mio Paese per essere all’altezza dei problemi odierni». Con la coscienza che quello che si fa per l’Europa tornerà a vantaggio anche del proprio Paese.
b) Deve essere chiara la consapevolezza che è necessario costruire una larga base di consenso per potere far passi avanti. L’Italia deve quindi essere parte attiva della coalizione giusta, quella dei volenterosi, superando paure, gelosie, ritorsioni. Deve e può svolgere un ruolo di stimolo a favore degli interessi comuni.
c) Poiché il cambiamento dell’Europa richiede che siano rafforzati i processi europei di rappresentanza e di costruzione di ideali e interessi comuni europei (cioè il canale delle elezioni del Parlamento europeo e della accountability della Commissione verso questo), è necessario dare maggiore vitalità e autentica dimensione sovranazionale ai partiti europei (e quindi «europeizzare » maggiormente le elezioni europee). Agire su questi partiti è quindi una priorità.
Altrettanta importanza ha anche lo sviluppo di movimenti europei capaci di contribuire a una visione comune in settori cruciali (dalle questioni bioetiche a quelle ambientali).
d) Occorre infine prendere coscienza dell’urgenza di fare passi avanti nelle direzioni indicate. Il tempo non è mai illimitato: se l’Europa non coglie l’occasione di questa crisi per porre rimedio alle sue deficienze potrebbe trovarsi presto a non poter resistere alle spinte disgregatrici
Da L’Unione europea dopo il coronavirus (Progedit) a cura di Aurelio Valente, 197 pagine
La casa editrice Progedit ha deciso di offrire il download gratuito del pdf del volume, oltre ovviamente alla possibilità di acquistarlo in formato cartaceo.