Luigi Di Maio pare proprio non voler seguire l’esempio di Boris Johnson, che ha fatto felice Donald Trump decidendo con gran clamore il bando da fine anno e addirittura la disinstallazione dei sistemi della cinese Huawei già operativi in Inghilterra (sia pure da qui al 2027).
Beninteso, il titolare della Farnesina ha ragione quando sostiene che il governo italiano, quanto alla rete 5G, ha adottato tre decreti legge restrittivi (incluso uno sulla golden share) che in futuro ci possono mettere al riparo dall’intromissione di Huawei sulle nostre reti. Ma Di Maio sulla Cina segue la linea del “non si fa, ma non si dice”.
Là dove Johnson ha fatto deliberare il veto a Huawei addirittura dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale per sottolineare il carattere di opposizione alle mire cinesi sui segreti inglesi attraverso la tecnologia Huawei, ottenendo nel mondo titoli da prima pagina, Di Maio procede sì per acta, ma non compie mai gesti di rottura. Di più, non parla mai male della Cina. Rivendica di avere approvato più e più risoluzioni contro la Cina su Hong Kong in sede europea, ma si è ben guardato dal fare qualsiasi pubblica dichiarazione di critica alla Cina in Italia.
La ragione di tanta discrezione è evidente: la ricerca dei Cinquestelle e di Di Maio di una “terza via europea sul 5G” copre l’ennesima contraddizione grave interna al movimento. Di Maio si profonde ormai in modo quasi ridicolo – vista la storia dei grillini – in professioni di sfegatata fede filo atlantica, ma le nasconde sotto il tappeto delle interviste tecniche e delle mozioni sottoscritte nelle sedi europee.
Si guarda bene comunque dal dare l’impressione pubblica di essere perfettamente allineato ai desiderata di Washington. L’anima filo cinese dei Cinquestelle, in funzione antiamericana, è ben radicata nel movimento, con Davide Casaleggio che non nasconde i suoi rapporti con Thomas Miao, ceo di Huawei Italia.
A fronte delle tante lacerazioni interne al mondo grillino, il ministro degli Esteri, fa dunque di tutto per non introdurre nuovi attriti e suscitare polemiche interne.
Il non piccolo problema di Di Maio è che questa sua prudenza iper democristiana nei confronti della Cina non piace a Washington. Lo scontro frontale e aggressivo con la Cina è uno dei punti di forza della campagna elettorale di Donald Trump che intende costruire un fronte di Paesi alleati che lo seguano, rumorosamente, su questa strada di rottura.
Gli è stato semplice far allineare su questa linea un Boris Johnson (sino a pochi giorni fa più che tiepido su Huawei) obbligato a stringere rapporti con gli Stati Uniti per alleviare i danni della Brexit all’economia inglese. Non gli è facile per nulla portare su una linea di rottura con la Cina Angela Merkel, timorosa dei contraccolpi sull’export tedesco e punta quindi molte carte sull’anello debole dell’Europa: l’Italia.
La settimana scorsa Di Maio è stato convocato nella sua sede dall’ambasciatore americano a Roma Lewis Eisenberg (fatto inusuale e indicativo: la prassi vuole che sia l’ambasciatore a recarsi alla Farnesina) per ricevere pressanti richieste di rompere pubblicamente con la Cina su Huawei.
All’inizio di questa settimana identiche pressioni sono state esercitate sull’ambasciatore Piero Benassi, consigliere diplomatico di Giuseppe Conte, da Robert O’Brien, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump. Altre pressioni arriveranno nei prossimi giorni e settimane. Il tutto in un quadro che vede un governo italiano più che traballante di suo.
Insomma, Di Maio, sulla Cina e su Huawei, è obbligato giorno dopo giorno da Washington a prendere atto di avere margini sempre più stretti di ambiguità. Ma non sa come uscirne.