In una scena di Diana Kennedy: Nothing Fancy, documentario girato da Elizabeth Carroll per celebrare colei che lo chef José Andrés ha definito «l’Indiana Jones del cibo», Diana Kennedy è impegnata in un esilarante tutorial che ha come protagonista il guacamole. E ci tiene a precisare – anzi, a insistere: «Se le persone vi dicono che non amano il coriandolo, beh, non scomodatevi a invitarle a cena». Si tratta di una frase che, da sola, potrebbe racchiudere tutta la strabordante, poliedrica e istrionica personalità di Kennedy, all’anagrafe Diana Southwood, classe 1923: nata a Loughton, nell’Essex, finita la seconda guerra mondiale si trasferisce a Toronto, in Canada, dopodiché, galeotto un viaggio ad Haiti durante la rivoluzione, conosce Paul Kennedy, corrispondente estero del New York Times. Lui era di base a Città del Messico, e una volta ultimato il suo incarico i due si spostano nella capitale messicana nel 1957, dando il via «a un momento d’amore assolutamente incredibile». Si sposano, e durante la sua permanenza Diana capisce che il miglior cibo messicano non si trovava nei ristoranti di lusso, bensì nei mercati, nei tipici ristoranti di famiglia, le ‘fondas’, nelle case. Intuisce che le ricette variano da regione a regione: ne raccoglie a centinaia anche con l’aiuto del marito – che segue in ogni suo viaggio – e impara cucinare diversi piatti grazie alle cameriere degli amici, che l’incoraggiano a visitare i loro villaggi. Lo farà regolarmente da allora, esplorando il Paese in lungo e in largo con uno sguardo curioso e mai sazio.
Nel 1967 Paul muore di cancro alla prostata a New York, dove la coppia si era recata per seguire delle cure: rimasta sola, a Manhattan, Diana si sente come scollata, fuori dal suo elemento. Fa i conti con la solitudine, è «terribilmente depressa», conosce pochissima gente e capisce di dover dare una scossa alla sua vita. La scossa arriva sotto forma di Craig Claiborne, il noto critico gastronomico nonché ai tempi food editor del New York Times, che sarebbe poi diventato un ottimo amico: le suggerisce di dare lezioni di cucina messicana nel suo appartamento, un’idea che a lei lì per lì pare un po’ folle, ma che infine – sebbene con riluttanza – abbraccia. La voce si sparge, le scuole di cucina all’epoca erano una novità assoluta, e ben presto «c’erano sei persone nella mia piccola cucina, intente a preparare cibo tradizionale. Un designer di abiti, un’attrice. Ed eccomi qui, a insegnare loro come fare i papadzules. Voglio dire, quasi nessuno in Messico sapeva fare papadzules. È stato divertente. È stato un inizio».
Più tardi, un editore di Harper & Row le suggerisce di scrivere un libro di cucina: nel 1972 nasce The Cuisines of Mexico, il primo di nove totali, a cui viene ampiamente attribuito il merito di aver introdotto la cucina tradizionale messicana nel mondo di lingua inglese. Definirli ‘libri di cucina’ in senso stesso è una mezza calunnia, dato che sono più studi culturali, dove il cibo diventa il mezzo e la vita delle persone il fine: il loro successo è tale che pian piano arrivano pure apparizioni in programmi tv di cucina (Martha Stewart l’adora) e show di cucina per conto proprio. Di fronte alla telecamera è formidabile: desiderosa di condividere ciò che aveva scoperto in Messico ma anche leggermente protettiva e gelosa, sempre schietta, al limite da risultare quasi maleducata. È strano pensare a come un donnino di 97 anni, bianco e di origine britannica, sia diventato un’autorità in materia di cibo messicano, riconosciuta da tutti: dalla chef messicana Gabriela Cámara («Una leggenda») al ristoratore Nick Zukin («La profeta della cucina messicana»), passando per lo chef preferito di Barack Obama, Rick Bayless («Uno stupefacente archivio di conoscenza») e per Pati Jinich, conduttrice della serie tv Pati’s Mexican Table («Credo che il Messico, come Paese, sarà eternamente in debito con i suoi sforzi»). Il suo segreto? Non ha mai smesso di viaggiare, di imparare, di osservare.
Oggi, dal suo ranch fuori Zitácuaro, sulle colline di Michoacán, a quattro ore da Città del Messico, questa antropologa culinaria ha deciso di svelarsi senza filtri a Elizabeth Carroll, in un lungometraggio che prende il titolo dall’omonimo nostalgico libro del 1998 dedicato al comfort food. «Vuole fare le cose a modo suo, nella vita e nella morte», afferma la regista che l’ha instancabilmente seguita e intervistata, «essere nell’orbita di Diana è sempre molto intenso»: Kennedy d’altronde appartiene a un gruppo di personalità – come Julia Child, Karen Hess e Paula Wolfert – che hanno dedicato la propria carriera alla difesa di altre culture, insegnandoci la sottile e fondamentale differenza tra la conoscenza della storia e la capacità di apprezzarla, contrapposta a una mera e passiva appropriazione.
Per anni, Kennedy ha viaggiato in lungo e in largo per il Messico – da Chihuahua, nel nord, allo Yucatán, fino ai confini del Guatemala e del Belize – per documentare il suo immenso patrimonio gastronomico, conscia di sapere dove voler andare, eppure mai del tutto sicura di dove sarebbe potuta finire, ché «Le scoperte importanti della mia vita sono sempre avvenute per caso». Quando arrivava in una nuova città, visitava subito il suo mercato, chiedendo alle persone che incontrava da dove venivano, cosa amavano cucinare, come e quali ingredienti usavano di più. Si spostava per il Paese con un pick-up («Vorrei che i miei pick-up potessero raccontare alcune delle esperienze che hanno vissuto con me»), ma ricorda bene la prima volta in Messico, quando utilizzava gli autobus «insieme alle galline e ai maiali», vagando da un villaggio all’altro, da una regione all’altra, interessandosi al modo in cui veniva cucinato il cibo e alle specificità delle singole ricette. Domandava, domandava in continuazione: quali sono i peperoncini locali? Quali i frutti locali? Quali le erbe locali? Toccava e annusava tutto, profumi e conoscenza: «Qualsiasi cosa per evadere», dice nel documentario, «e per imparare».
Kennedy preferiva visitare posti in cui non era mai stata prima, da sola, accompagnata da un registratore, trascorrendo le notti sul pick-up o, se il tempo lo permetteva, su un’amaca. Nulla l’ha fermata, la sua determinazione era inflessibile. Guidava per centinaia e centinaia di chilometri per verificare un singolo fatto, fosse un ingrediente o una misurazione. Nella prefazione di The Cuisines of Mexico, Craig Claiborne scrisse: «Se il suo entusiasmo non fosse bello e contagioso, sarebbe ascrivibile alla mania». Viaggiava compulsivamente ed era sempre sincera e pressante, forse un po’ invadente: «Volevo sapere dove viveva la gente. Volevo sapere com’era il paesaggio. Volevo sapere di più». Le persone le hanno sempre risposto generosamente, affascinati dalla sua persona al punto da invitarla nelle loro cucine, questa strana signora inglese che si sarebbe trattenuta ore, giorni o anche una settimana. «Mi sono sentita subito a casa», conferma lei, «ovunque sia andata». Registrava fedelmente le ricette, e carica di specialità locali tornava a Michoacán per ricrearle a casa: ogni volta che ne pubblicava una, diceva sempre da dove proveniva e chi era la donna che l’aveva condivisa con lei.
La sua è stata «una tesi di dottorato svolta in tempo reale, nella vita reale»: non si è mai risposata, non ha mai voluto figli («Non voglio tirar su una piccola me stessa. Te lo immagini?»), ha dato anima e corpo al lavoro. Carroll la descrive come «un’antropologa del cibo, che è anche una cuoca superba», una figura fondamentale della cucina messicana come oggi la conosciamo, che ha ricevuto svariati riconoscimenti, tra cui il l’Order of the Aztec Eagle, la più importante decorazione concessa a cittadini stranieri in Messico, e un James Beard Foundation Award. Nel 2002, il Principe Carlo è andato a appositamente a trovarla soltanto per insignirla dell’onorificenza di Membro dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico, per «aver promosso le relazioni culturali tra Regno Unito e Messico». Un’eredità, la sua, ingombrante e quanto mai importante.
In una scena del documentario, Carroll la filma durante un cooking camp a casa sua: alcuni studenti sono chef affermati, uno possiede tre ristoranti a Manhattan, un altro ne ha cinque a Portland. Ma Kennedy è inflessibile con chiunque, decisamente spietata nelle critiche e orgogliosa dei suoi gusti. Nessuno sfugge alla sua condanna per ricerche pigre sul campo o per piatti mal eseguiti: «È assolutamente spaventoso che il Messico stia importando peperoncini», si lamenta a un certo punto, ammonendo gli chef per non aver preso posizione a riguardo. Poco dopo sbotta: «Imparate, imparate, imparate. Leggete i miei libri e imparate. Che cosa avete intenzione di fare quando me ne sarò andata?».
Una domanda che diventa purtroppo sempre più urgente: Carroll l’ha filmata nel corso di sei anni, a partire dal 2013: «Quando l’abbiamo incontrata per la prima volta aveva 91 anni, e correva da tutte le parti. ‘Alzatevi, andiamo al mercato!’, ci diceva, e noi pensavamo ‘Wow, questa donna ha tre volte la nostra età!’». Alla fine delle riprese, però, Kennedy aveva rallentato il ritmo «ed è frustrante per lei», prosegue Carroll, «constatare di non possedere più la forza e l’energia avute per una vita». Le energie che ancora conserva le mette nel ribadire per l’ennesima volta un concetto alla base del suo mastodontico lavoro: «la questione non è affrettarsi, ottenere una ricetta e andarsene: è ricrearla nella propria cucina, esprimerla in modo tale che altre persone siano in grado di replicarla, in modo che non vada perduta. Dio, è soltanto questo ciò che io ho provato a fare». E se il suo lascito principale sarà fungere da vitale collegamento tra un passato rappresentato da Josefina Veláquez de León e un presente in cui spiccano Gabriela Cámara, Pati Jinich, Bricia Lopez, Abigail Mendoza, è innegabile che il suo essere senza filtri, ossessiva e perfezionista ha anche raccolto critiche e incendiato litigi passati alla storia. «Ha una personalità davvero difficile e non è amata da chiunque… chi la ama, ama ciò che ha fatto, il suo lavoro, la sua genialità e l’impegno nel portare avanti ciò che l’appassiona, ma il suo stile non è per tutti», conclude Carroll. Diana Kennedy si schernisce e minimizza: «Ho avuto una vita molto divertente», ammette nel documentario. E darle torto non è affatto un’opzione percorribile.