E se il diavolo non fosse come lo dipingiamo? Qualche spiraglio è arrivato persino dalla Cina, quando ad aprile la fabbrica mondiale ha ricominciato a girare, facendo registrare una crescita superiore a quella di dodici mesi prima. La congiuntura è pessima, su questo c’è poco da discutere; forse lo sarà meno di quel che temiamo, in ogni caso mai tanta parte del mondo era stata confinata in casa per paura di un nemico sconosciuto e forse invincibile.
Tuttavia se gettiamo lo sguardo in avanti possiamo vedere un orizzonte diverso. Intonare il de profundis per la globalizzazione, il capitalismo, l’industria, la crescita, il progresso, mi è sembrata una reazione isterica in un mondo che ha perso la consapevolezza di sé. Sono convinto che la lotta al Covid- 19 indurrà la “vecchia talpa”, che da tempo stava scavando, ad accelerare una trasformazione cominciata dopo il crac finanziario e la recessione del 2008-2010, in parte come risposta agli effetti di quella fase, in parte come conseguenza di processi di più lunga durata.
Racconta Omero nell’Odissea: quando Menelao, tornando dalla distruzione di Troia, riesce a catturare Proteo, figlio di Poseidone, lo vede trasformarsi in un leone, un serpente, un leopardo, un maiale, persino in semplice acqua e poi diventare un albero prima di riprendere la forma umana e predirgli il futuro. Il capitalismo è il moderno Proteo, l’unico sistema economico-sociale la cui sostanza è nel suo continuo mutamento.
È la distruzione creatrice. E mentre ci stracciamo le vesti per quel che abbiamo perduto, soprattutto la vita di molti nostri cari, assistiamo anche alla nascita faticosa, incerta, di un nuovo paradigma che comincia dal lavoro. A cambiare è il pilastro fondamentale della ricchezza delle nazioni attraverso la combinazione di uomo e tecnologia.
Agli albori della Rivoluzione industriale il salto avvenne grazie al telaio meccanico. Oggi la rivoluzione digitale propone un nuovo modo di lavorare e la pandemia lo ha reso addirittura indispensabile. È il mercato, dunque, a generare le forze del cambiamento, quell’equilibrio mobile che lo rende propulsivo.
Lo Stato può aiutare oppure ostacolare, ma non generare il nuovo, per sua stessa natura tende a proteggere e a conservare; ciò vale sia per i seguaci di Hobbes secondo i quali solo una forza esterna può evitare la guerra di tutti contro tutti, sia per chi crede al contratto sociale nella versione anti-assolutista di John Locke.
Se cerchiamo la radice etimologica del sostantivo “crisi” arriviamo alla parola greca krysis, che rimanda a una frattura e alla conseguente scelta da compiere: da questo punto di vista, dunque, la crisi è una trasformazione da portare a compimento, in seguito a una rottura della continuità che può essere interna o esterna. Chi parla di crisi del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto dice il vero se si dà all’espressione il suo giusto significato.
La velocità di questa transizione fuori dal vecchio ordine e la sua profondità creano un senso di smarrimento al quale si cerca di sopperire guardando al passato, sognando il tempo perduto, richiamando l’età dell’oro. La nostalgia accompagna i comportamenti individuali e collettivi e determina crisi, nel senso di scelte, traumatiche e pericolose: il nazionalismo come risposta allo smarrimento dell’identità, il protezionismo per contrastare la globalizzazione, il populismo come reazione all’impatto distruttivo delle nuove tecnologie sugli equilibri sociali precedenti.
(…)
Dopo il secondo conflitto mondiale il capitalismo ha rilanciato il suo primato sotto le insegne a stelle e strisce; con il crollo del Muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica non ha avuto più rivali. I “ruggenti anni Novanta” (Joseph Stiglitz) non segnano soltanto il trionfo della globalizzazione, ma anche “la fine della storia così come l’abbiamo conosciuta” (Francis Fukuyama) e l’affermazione della democrazia liberale: sembrava realizzarsi l’idea kantiana di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico.
L’incanto, secondo le interpretazioni più diffuse, viene rotto dalla grande recessione seguita al crac del 2008, un evento che rivela quello che molti hanno definito “il fallimento del mercato” e delegittima prima il capitalismo, poi la liberal-democrazia.
Oggi siamo a questo punto. Abbiamo impiegato un decennio a fare i conti economici con quella rottura della storia, poi abbiamo fatto i conti con le sue ricadute politiche. Ma forse ci sfugge che Proteo sta ancora una volta cambiando pelle e più rapidamente di quel che noi immaginiamo.
Impossibile afferrare questa divinità del divenire ancor più quando è posto di fronte a sfide epocali come la pandemia. L’eterna lotta tra l’uomo e il virus trova un altro campo di battaglia nel Covid-19. Il nuovo secolo ha visto già molte epidemie inattese e sconosciute.
Si è aperto con una buona notizia, cioè che la ricerca e la industria farmaceutica sono riuscite a trovare il modo di bloccare l’HIV; la cattiva notizia è che non esiste ancora un vaccino che possa stroncare l’AIDS. Poi nel 2002 è arrivata la SARS proveniente dalla Cina, e ancora l’influenza suina nel 2009, generata in Messico e negli Stati Uniti, l’Ebola in Africa centro-occidentale nel 2014; in tutti questi casi l’alleanza tra ricerca, sistemi sanitari e industria ha avuto la meglio e, anche quando non ha potuto trionfare, ha messo sotto controllo e talvolta represso le epidemie.
Non sappiamo se sarà ancora così. E oggi sono all’opera alcuni fattori che rendono più difficile la vittoria, primo tra tutti il nazional-populismo che genera conflitto e diffidenza invece di cooperazione e fiducia. Ma il successo dipende dalla capacità di far prevalere un modello che combini utile e missione, profitto e scopo, mettendo in moto tutte le risorse materiali e intellettuali per un obiettivo comune, vitale per l’intera umanità.
(…)
Un nuovo senso comune diffonde l’idea che la globalizzazione sia finita. È così? Senza dubbio la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta nei “Trenta gloriosi” dal 1990 al 2020 non funziona più. Ma il protezionismo, la guerra di tutti contro tutti, il mondo dei confini e delle barriere ha già dato il peggio di sé nella prima metà del secolo scorso. Ora si parla di globalizzazione lumaca (slowbalisation), di globalizzazione regionale, di grandi aree geo-economiche in competizione l’una con l’altra, ma non chiuse in se stesse.
Secondo una scuola di pensiero, la catena della macchina mondiale si rimetterà in moto più presto del previsto. Io penso che non girerà più come nel recente passato. Tuttavia la fine della globalizzazione è un altro di quei tormentoni reazionari che si ripetono, al pari della crisi del capitalismo, le macchine che uccidono il lavoro, il mondo digitale come il Grande Fratello orwelliano: insomma, l’ennesimo tramonto dell’Occidente.
La pandemia è la cartina di tornasole del nuovo capitalismo che possiamo chiamare digitale, verde e responsabile, secondo le tre definizioni che vanno per la maggiore, quelle che meglio rappresentano, ora come ora, la nuova grande transizione.
Il cambio di paradigma non è possibile soltanto in una delle tre dimensioni, non è solo ecologia, né solo high tech, né basta appiccicare l’etichetta di responsabilità sociale per cambiare le imprese. È la combinazione dei tre fattori a condurre verso un nuovo modello. Il capitalismo non ha alternative. Ma il capitalismo ha molte facce ed è in continuo mutamento.
Da “Il capitalismo buono – Perché il mercato ci salverà” (Luiss University Press), Luglio 2020, 159 pagine, € 15,00