Liberali egualitariL’utopia ragionevole di una globalizzazione giusta

Adottando una prospettiva storica, si vede che le radici di un mondo più connesso non sono né recenti né soltanto economiche. Di fronte al rallentamento di oggi, si deve intervenire nei processi di integrazione per portare più equità e uguaglianza

Per stabilire se ci sia o meno una crisi della globalizzazione bisogna in primo luogo chiarire di cosa stiamo parlando. Un primo senso di “globalizzazione” allude al processo di intensificazione degli scambi e delle interazioni tra persone e istituzioni che ha prodotto negli ultimi decenni una sempre più stretta integrazione delle diverse aree del pianeta.

Dico “allude” e non “descrive” perché, come tutti i termini generali, “globalizzazione” è molto vago. Per specificarne il significatoo dovremmo, infatti, aggiungere sostanza al termine attraverso un resoconto del processo di cui stiamo parlando.

Di che natura sono le interazioni che lo producono? Commercio, trasporti e comunicazione sono tre sfere molto ampie di attività che vengono subito alla mente a questo proposito, ma non è scontato che la lista debba fermarsi qui.

In fondo, se allunghiamo lo sguardo oltre gli ultimi decenni, magari sfogliando un atlante storico, risulta evidente che anche le guerre e le migrazioni potrebbero essere incluse nell’elenco delle attività umane che hanno contribuito all’integrazione delle diverse regioni del globo.

A seconda di quanto lontano si guardi, tra le forze della globalizzazione si dovrebbero includere non solo gli interessi economici, ma anche la brama di conquista, la curiosità intellettuale e lo spirito di avventura. Alessandro Magno e Gengis Khan, Cristoforo Colombo e Napoleone, Ingvar Kamprad e Steve Jobs sono tutti, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, protagonisti del processo che ha condotto il pianeta a essere sempre più integrato.

Se è vero, come ha scritto Edgar Morin, che è nel corso del XX secolo che la «mondialità» si afferma come «forma moderna del destino», è difficile negare che le forze che hanno condotto a questa situazione si siano messe in moto molto prima.

Verrebbe quasi da dire che “globalizzazione” è semplicemente uno dei modi in cui chiamiamo la storia. Credo che questo sia ciò che Immanuel Kant aveva in mente quando scriveva che la sfericità della terra rende impossibile agli esseri umani di disperdersi all’infinito, e quindi essi «devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro».

Quando scriveva queste parole, Kant aveva ben presente il ruolo sia della guerra sia del commercio nel rendere la terra sempre più integrata. Ciò che non poteva immaginare era che alla nave e al cammello (due esempi di mezzi di comunicazione che menzionava) si sarebbero affiancati nel giro di pochi decenni i treni, gli aerei e infine le forme di comunicazione istantanea che promettono (attraverso la «rivoluzione globotica» di cui parla Richard Baldwin) di smaterializzare le azioni rendendo le catene del valore sempre più estese e ramificate.

Se le cose stanno in questo modo, la fine della globalizzazione sarebbe come la fine della storia. In effetti, quando Alexandre Kojève affermava che «Marx è Dio e Henry Ford è il suo profeta», pensava proprio a qualcosa del genere: un processo di integrazione sociale ed economica che ha raggiunto il suo compimento.

La terra è ancora rotonda, ma ogni punto del globo è raggiungibile da qualunque altro. Lo “spirito di conquista” si è spento (che senso ha la guerra se non c’è più spazio da conquistare? Ciascuno di noi è potenzialmente ovunque, se non di persona, attraverso una connessione elettronica o magari rappresentato da un avatar) e il suo posto è stato preso da pulsioni che si armonizzano senza attriti eccessivi con gli «spiriti animali» del capitalismo.

Intesa in questo modo la «fine della storia» non è uno stato di sospensione del tempo. Nel pianeta compiutamente globalizzato continuerebbero ad aver luogo eventi, ma essi troverebbero il proprio ordine temporale (il prima e il dopo) secondo un modello ciclico piuttosto che progressivo. Una visione suggestiva, che alcuni potrebbero trovare inebriante, altri deprimente, ma che per ora possiamo considerare ancora soltanto un’ipotesi.

Oggi il mondo è straordinariamente più integrato di quanto non fosse duecento anni fa, ma non possiamo dire che il processo si sia compiuto. Al contrario, stiamo probabilmente entrando in una fase di rallentamento della globalizzazione.

Almeno questa sembra essere la conseguenza più significativa della pandemia. La chiusura dei confini, l’imposizione di limiti stringenti alla libertà di movimento delle persone, l’incrinarsi della fiducia nei rapporti tra paesi, sembrano tutti segnali che fanno pensare a una battuta d’arresto nel processo, forse persino a un regresso.

A questo punto entra in scena il secondo senso di “globalizzazione”. Se il pensiero di un mondo meno integrato evoca il regresso, è chiaro che tendiamo a pensare al processo di cui stiamo parlando come un progresso.

Questo spiega anche perché la discussione sulla crisi della globalizzazione in corso in queste settimane abbia esplicitamente un carattere normativo.

Non stiamo semplicemente prendendo in considerazione la plausibilità o meno di una previsione, ma valutando un insieme di reazioni individuali e collettive al pericolo rappresentato dal Covid-19.

Chi ricorda gli effetti positivi della globalizzazione sta cercando di contrastare queste reazioni, mostrando che la somma delle conseguenze positive di società aperte è superiore rispetto a quella delle conseguenze negative. Che la chiusura può essere una politica di emergenza, ma non un destino. Per quel che conta, mi iscriverei anche io tra i difensori della globalizzazione, ma con qualche qualificazione.

Se è vero che l’integrazione progressiva del globo ha generato una gran quantità di opportunità e di vantaggi per un grandissimo numero di persone, questo non vuol dire che essi siano stati distribuiti in modo equo.

Uno sviluppo equo non si realizza soltanto attraverso l’apertura dei mercati, anche se, come sottolineava Kant, lo spirito del commercio è uno straordinario fattore di composizione dei conflitti e di superamento delle rivalità. Ci sono stati e ci sono vincitori e perdenti della globalizzazione. Era così al tempo di Cortéz e Montezuma ed è così ancora oggi.

Guardare alla globalizzazione nella prospettiva di lungo periodo, come facciamo per tutti i fenomeni storici di cui vogliamo comprendere appieno le cause e la portata, ci rivela che l’espansione degli imperi europei è stata un passaggio importante nel processo di integrazione del globo, ma ciò è avvenuto anche attraverso crimini di ogni genere: conquiste violente, genocidi, riduzione in schiavitù, sottomissione di intere nazioni.

Lo stesso colonialismo, verso il quale Kant giustamente provava orrore, è parte del processo di globalizzazione, come lo sono le conseguenze che ha provocato nelle culture dei paesi che sono stati soggiogati dalle potenze europee (basti pensare a scrittori di origine indiana ma di lingua inglese come Salman Rushdie o Amitav Ghosh, un fenomeno letterario tipico della nostra cultura globale).

Persino oggi, nello stesso momento in cui celebriamo l’uscita dalla povertà di milioni di persone, non possiamo dimenticare che questi risultati positivi sono compatibili con la persistenza, in quegli stessi paesi che si arricchiscono, di forme di sfruttamento che molti europei troverebbero inaccettabili (avere uno stipendio è meglio che non averlo, ma questo non vuol dire che sottrarsi al pericolo della morte per inedia garantisca anche una vita decente e la piena fioritura dei propri talenti).

Insomma, l’intensità dell’integrazione è certamente un aspetto essenziale dello sviluppo sociale, inteso in senso quantitativo, ma ciò non vuol dire che essa sia sufficiente per generare quella condizione in cui, come scrive Kant, «parti del mondo lontane» entrino gradualmente in «rapporti reciproci che alla fine diventano pubblicamente legali, avvicinando così sempre di più il genere umano verso una costituzione civile universale».

Più che alla difesa della globalizzazione, io mi iscriverei quindi a quella del progetto cosmopolita di chi aspira a una società globale in cui «la violazione di un diritto in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti»: l’utopia ragionevole dei liberali egualitari.

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