Per parafrasare quel che disse ironicamente Mark Twain, ironizzando sull’articolo di un giornale che ne aveva prematuramente annunciato il trapasso, si potrebbe dire che la notizia della morte della globalizzazione è fortemente esagerata. D’altro canto, la notizia della sua crisi non è più neppure una notizia, ma una tendenza consolidata, che ha ragioni politiche ed economiche molto precedenti alla pandemia.
Ai detrattori di quello che spregiativamente Tremonti chiamava «mercatismo», ormai vent’anni fa, il coronavirus ha offerto molti alibi per giustificare la diffidenza e l’ostilità per i giochi senza frontiere dell’economia mondiale, che hanno segnato la storia degli ultimi decenni.
L’allarme lanciato dall’Economist la scorsa settimana ha ovviamente un solido fondamento. Tutto quello che sta succedendo per effetto della pandemia gioca contro la globalizzazione. Le paure dell’opinione pubblica, l’opacità delle istituzioni multilaterali, le ritorsioni e gli scambi di accuse tra i governi, il protezionismo sanitario, la difficoltà di approvvigionamento di beni e servizi essenziali.
Tutto questo sembra fatto a posta per consolidare l’idea che la nazionalizzazione della politica e dell’economia ci farebbe vivere meglio, più a lungo e in migliore salute.
Ma non è così. La globalizzazione non è stato un “progetto”, come cospiratoriamente si tende a immaginare, ma un fenomeno storico con ragioni tecnologiche, demografiche ed economiche che non saranno spazzate via dalla pandemia.
La totale riappropriazione da parte dei singoli stati nazionali delle filiere di produzione di beni e servizi essenziali sarebbe non solo costosissima, ma di fatto impossibile. Un Paese come l’Italia, che pure ha un’industria farmaceutica avanzata e di qualità, non riuscirebbe a fornire a milioni di persone farmaci essenziali, senza ricorrere a principi attivi e a prodotti finiti provenienti dall’estero.
Nel nostro paese, dall’inizio dell’emergenza, abbiamo visto addebitare di tutto, letteralmente di tutto, alla globalizzazione.
Come se questo processo negli ultimi decenni avesse aggredito dall’esterno, proprio come un virus, un organismo economico autarchico perfettamente funzionante e non avesse consentito invece all’Italia – proprio grazie alla liberalizzazione degli scambi – di rimanere agganciata, sia pure tra gli ultimi vagoni, al treno dei paesi avanzati grazie al contributo offerto dall’export al prodotto nazionale e dall’import al bilancio delle famiglie.
Ovviamente, la globalizzazione ha destabilizzato equilibri consolidati. Sbaglieremmo però a considerare il sovranismo come la coperta di Linus dei perdenti o come una forma di legittima difesa di interessi minacciati dai processi dell’economia globale.
Faremmo un favore immeritato ai sovranisti regalando loro la patente di difensori dei nuovi oppressi. In Italia la forza politica più ideologicamente protezionista, la Lega, continua a essere primo partito in Lombardia, in Veneto, in Piemonte e in larga parte dell’Emilia Romagna, cioè dove si concentrano i due terzi dell’export italiano.
In provincia di Treviso, dove vivono meno di 900mila persone, la Lega ha preso alle scorse europee oltre il 50 per cento dei voti, in un territorio che ha un export in valore assoluto superiore a quello della Campania e della Puglia.
Non c’è alcuna relazione razionale tra la chiusura delle frontiere economiche, che Salvini spaccia come rimedio di tutti i mali, e la difesa degli interessi concreti degli imprenditori e dei lavoratori che da questa Lega si fanno rappresentare.
C’è invece una relazione irrazionale – ma certamente reale – tra i timori che la globalizzazione infonde, anche in chi ne beneficia, e la reazione politicamente “nevrotica” che l’uso ideologico di questa paura riesce a suscitare e a consolidare.
Mutatis mutandis è quel che vediamo nei rapporti con l’Unione europea di paesi come l’Ungheria o la Polonia. Questi devono tutto, letteralmente tutto, all’integrazione nell’Ue e nel mercato comune. Invece vince un racconto che equipara sic et simpliciter la “dominazione” europea a quella sovietica, e giunge ormai apertamente a ripudiare i principi di libertà, stato di diritto e divisione dei poteri, che ungheresi e polacchi sognavano dolorosamente proprio dall’altro lato, quello “chiuso”, della cortina di ferro.
A giocare contro la globalizzazione è in primo luogo l’impressione che in una società aperta “mondiale” si perda il controllo democratico dei processi politici, essendo la politica e le relative istituzioni ancora in larga misura nazionali, pur non essendo più nazionale il baricentro delle decisioni e la strumentazione necessaria per darvi attuazione.
Che si parli di cambiamento climatico o di contenimento di una pandemia; di disciplina del commercio internazionale o dei mercati finanziari; di standard di produzione industriale o agricola, è difficile individuare chi, dove e come prende le decisioni che cambiano il modo di vivere e lavorare. E che poi queste decisioni cambino in meglio perde paradossalmente importanza, di fronte all’impossibilità di controllare questo processo.
Tra gli appunti da tenere presente per il “dopo”, direi di segnarsi la necessità di un modo creativo per rispondere a questo problema reale, ma avendo consapevolezza di chi sono gli avversari della globalizzazione.
Anche se è banale dirlo, bisogna sempre tenere presente che le reazioni nazionaliste, sovraniste e protezioniste alla globalizzazione e a quella globalizzazione sui generis rappresentata dall’Unione europea non possono proprio essere considerate un effetto di quelle cause, perché le precedono sia in termini storici, che in termini ideologici.
L’Italia ha accarezzato il sogno di diventare una potenza globale autarchica molto prima che la frontiera del patriottismo economico diventasse la lotta contro la globalizzazione e l’Unione europea. Non sappiamo che globalizzazione ci lascerà il mondo post-pandemia. Possiamo però essere sicuri che ci lascerà i soliti nazionalismi.