Oltre il cuocoLa fine del culto dello chef

I ristoranti sono imprese ed esperienze collettive, a cominciare da chi serve ai tavoli, cominciano a scrivere i giornali internazionali. E poi alcune considerazioni sul futuro delle filiere locali e sul rapporto tra vino e natura

“Get a real job!” – Vittles, 22 luglio

Bella Saltiel è una scrittrice e giornalista freelance che vive e lavora a Londra. Qui su Vittles, newsletter sui temi gastronomici in epoca covid-19 (creata e diretta da Jonathan Nunn) che vale davvero la pena seguire, racconta la sua esperienza nel mondo dell’hospitality, che in questo caso vuol dire servizio ai tavoli. La sua riflessione è piena di spunti, a partire dalla specificità del servizio nel contesto britannico, nato nelle case dell’aristocrazia e sviluppatosi intorno alle conseguenza sociali del colonialismo e dell’immigrazione, per arrivare alle questioni salariali e alle condizioni di lavoro. In Italia si è parlato spesso di sala e di centralità dell’accoglienza, ma poco si è ragionato sulla dignità – diciamo così – strutturale di questo lavoro. A tale proposito Saltiel scrive: «È una questione endemica in una società in cui i concetti di rispettabilità e ambizione sono strettamente correlati con classe, razza, genere e potere. C’è un’idea diffusa secondo cui un lavoratore nel campo del servizio – in particolare un lavoratore bianco e britannico nel campo del servizio – sceglierebbe l’ospitalità solo come secondo lavoro. Questa attitudine ci dice che il servizio non costituisce una vera carriera, ma un lavoro umile fatto da coloro che si trovano sui gradini più bassi della gerarchia sociale: donne, poveri, stranieri e persone considerate attraverso le lenti della razza». La soluzione? Più dignità salariale e sul versante dei diritti per chi si occupa di servizio.

On Restaurants – From the Desk of Alicia Kennedy, 20 luglio

Maggiore dignità per chi, nei locali e nei ristoranti, si occupa di servizio, vuol dire quasi automaticamente maggiore consapevolezza della natura collettiva dell’esperienza gastronomica fuori dalle mura di casa. Questo articolo di Alicia Kennedy (a proposito di newsletter da seguire, e forse il tema delle newsletter gastronomiche meriterebbe un capitolo a parte) ragiona sul ruolo del cuoco nel ristorante, partendo dalla tesi secondo cui domani, in un’epoca stravolta dalla pandemia, forse il modello-ristorante non sarà più quello di prima, e arrivando alla considerazione per cui in tale contesto l’ego dello chef non può più essere al centro di tutto. Scrivendo noi da un paese in cui l’idolatria degli chef è ai suoi massimi storici, viene da concordare con questa esigenza di spostare un po’ il baricentro del racconto della ristorazione.

Red Lobster Is Not Essential – The New Yorker, 21 luglio

Zach Zimmerman in un racconto dalle sfumature intime e familiari: un figlio che chiede alla madre di non tornare a servire ai tavoli del Red Lobster durante la pandemia.

The pandemic could actually strengthen the U.S. food system – The National Geographic, 17 luglio

Mentre in Italia la fase più dura della pandemia sembra ormai passata, negli Stati Uniti l’emergenza non accenna a placarsi. E mentre noi sperimentiamo sulla nostra pelle un timido ritorno alla normalità, aperture dei ristoranti comprese, negli Stati Uniti le chiusure, seppure a singhiozzo, restano numerose. Sta di fatto che così come noi nelle scorse settimane abbiamo sperimentato importanti cambiamenti nel modo in cui ci approvvigionavamo di cibo, e parlavamo di un mondo che non sarebbe mai più stato come prima (prima di accorgerci che sarebbe tornato pressoché uguale a se stesso), oltreoceano in molti si stanno interrogando sul tema della filiera alimentare. È quello che fa Saul Elbein in questo lungo articolo, che racconta come la pandemia abbia spinto alcune realtà produttive e distributive statunitensi a riconsiderare il sistema-cibo nel suo complesso, e a costruire nuove reti, nuovi rapporti, nuovi legami. Il tutto in direzione di una dimensione più locale e regionale dell’approvvigionamento alimentare, alla faccia di chi diceva che il chilometro zero era un concetto obsoleto e passatista.

From Good Wine, a Direct Path to the Wonders of Nature – The New York Times, 20 luglio

In questo articolo Eric Asimov, uno dei più grandi critici del vino statunitensi, spiega qual è stata la sua fortuna più grande in anni di lavoro ad altissimo livello nel settore. La risposta? Scoprire la natura, la sua ricchezza, le sue sfaccettature. Sì perché il vino, attraverso la sua poesia, è chiave di accesso a un mondo naturale altrimenti precluso a molti, sicuramente a tutti coloro che vivono in città e hanno poca dimestichezza con la dimensione rurale. Ma non solo. Asimov sottolinea come parlare e scrivere di vino senza sottolineare la connessione che questa bevanda vivente ha con il mondo naturale è sbagliato: «quando perdi quella connessione con la natura, tutto quello che vedi è un bicchiere».