L’edilizia scolastica gioca un ruolo centrale nel Piano Scuola di Lucia Azzolina per la ripartenza delle attività didattiche a settembre. Per garantire il distanziamento sociale e l’innovazione della didattica, la ministra ha infatti programmato di coinvolgere gli enti locali e il terzo settore per trovare nuovi spazi e attività da far fare ai ragazzi. Grande autonomia sarà data ai dirigenti scolastici nello stabilire le ristrutturazioni necessarie e nel reperimento degli spazi. Il piano, però, è ancora piuttosto fumoso, e ha già sollevato le critiche di insegnanti, genitori e ragazzi su diversi punti.
Anche l’architetto Alfonso Femia, a capo dell’omonimo atelier con sedi a Genova, Milano e Parigi, è critico: «A questo governo manca una visione per la scuola». Da anni Femia sviluppa progetti per le scuole in Italia e in Francia, molto prima che il tema dell’edilizia scolastica diventasse “di moda” e che arrivasse il coronavirus a imporre la necessità di una riflessione sulla rimodulazione degli spazi.
Il tema è la creazione di luoghi orientati all’integrazione con la città: corti interne vaste e flessibili per l’organizzazione di eventi, spazi aperti e verdi, in un rapporto di osmosi con la città. Così è stato a Savona, per esempio, dove l’architetto ha trasformato la caserma Bligny in campus universitario, a Milano con il campus Iulm6, a Zugliano e a Legnago, in Veneto, ad Avignone e ad Annecy.
«Tutto dipende da chi attraversa e vive lo spazio. Quelli di oggi non sono pensati su questa modalità, e il Covid ha sollevato queste problematiche. Ma se l’abitare e il luogo di lavoro sono funzioni private su cui si sta operando un ripensamento, la scuola, la cultura e lo sport sono invece una funzione pubblica. E malgrado questo problema ci sia da decenni, qui i problemi da risolvere si limitano sempre alle emergenze, che sia l’amianto, un sisma o il Covid-19», spiega Femia a Linkiesta.
L’età del patrimonio edilizio delle scuole parla da sé: strutture con un’età media di 50-60 anni, in alcuni casi addirittura dentro a palazzi storici, che spesso non rispettano nemmeno i requisiti antisismici e di sicurezza di base. Luoghi che sono rimasti fermi nel tempo, come la stessa didattica, frontale e inadeguata rispetto alle sfide “liquide” che il tempo attuale impone.
Il coronavirus offre un’opportunità per ripensare tutto il sistema. Dice Femia: «La scuola non può essere considerata un manufatto a sé stante, è un motore economico. Per cui la città deve ripartire credendo che sia uno dei suoi elementi fondativi».
Si tratta di una sfida molto grande, a cui un “piano scuola” non potrebbe mai rispondere da solo. Intanto, perché mancano le risorse: i 3,2 miliardi stanziati copriranno a stento i bisogni tradizionali, dagli stipendi del personale agli interventi di ristrutturazione, l’acquisto di materiali didattici, il finanziamento dei corsi di formazione al digitale. «Ne servirebbero cinque all’anno, di miliardi», osserva Femia, «ma già solo ipotizzare di investire 1 miliardo all’anno nella scuola per i prossimi dieci anni significherebbe fare un serio passo avanti».
Il progetto di Femia, in sé, è semplice. Per l’architetto, il cambiamento si dovrebbe basare su tre modelli fondamentali: la scuola circolare, «in cui un edificio si apre nutrendosi di altre funzioni intorno, spazi verdi, strutture per lo sport e altri servizi, fino a 500 metri intorno alla scuola», spiega Femia; la scuola-città, «che prevede di demolire le scuole con più di 30-40 anni e di ricostruirle come ambienti aperti alla cittadinanza, secondo un rapporto fra superficie coperta e aree aperte al 30% e 70% rispettivamente»; infine la scuola-territorio, ovvero «una grande area verde dove collocare servizi e attività, integrati in un campus».
L’adozione di un paradigma o dell’altro dovrebbe dipendere dalla posizione e dallo stato del singolo edificio scolastico, a seconda che sia al centro della città, a contorno del centro o in aree periferiche. Ciascun paradigma, in ogni caso, sarebbe corredato da filtri verdi di passaggio, l’istituzione di aree aperte di relazione, e un sistema di mobilità dolce fatto di piste ciclabili.
Femia è consapevole dei costi di un simile programma, e non propone di fare tutto subito. Si potrebbe iniziare stanziando per ciascuna scuola anche pochi fondi (1 milione per la scuola circolare, 5 milioni per la scuola-città e 10-15 milioni per la scuola-territorio) per iniziare a compiere i primi interventi. E poi si potrebbe dare il via ad un gruppo sperimentale di 20 o 30 scuole sul territorio nazionale, a cui destinare 1 miliardo all’anno.
«Nessun altro paese è così indietro sulla scuola, eppure viene dimenticata perché non paga politicamente. Ma finché non diventa un problema di quelli che fanno arrabbiare la gente, sarà sempre qualcosa che andrà a vantaggio di chi non vuole farlo diventare un vero tema», dice Femia. «La scuola deve essere pensata, gli stessi architetti devono farla diventare un tema centrale. Non si tratta di piantare un miliardo di alberi, ma di come affrontare il presente. Oggi è il momento».
Per portare avanti il progetto, Femia ha già inviato una lettera all’ordine nazionale degli architetti, un’altra all’Anci, e preso contatti con i comuni di Milano, Bologna, Pisa, Livorno e Torino. L’idea è quella di rivolgersi alle città che sono interessate a sperimentare, o a quelle che sono già in corsa. «Sull’onda della rielezione di Anne Hidalgo in Francia, che propone una città da 15 minuti, noi proponiamo una scuola da 500 metri», dice Femia. «Bisognerebbe accederci in bici, e consentire che la scuola abbia rapporti profondi con il quartiere. In alcune città questa progettualità politica c’è. Poi i problemi ci saranno sempre, ma si tratta della scelta e della visione. In Francia non hanno mai smesso di fare scuole; tutti intorno a noi corrono a 200 all’ora».
Naturalmente i comuni non sono l’unico soggetto con cui interfacciarsi, ma per il momento Femia punta a raccogliere le risposte delle città e ad avviare idee concrete di progetti, prima di rivolgersi al ministero. «Una nuova progettazione nelle scuole comunque arriverà, ma io credo che la politica interverrà senza una logica e senza visione», ammette l’architetto.