FoodOffI ristoranti fuori dai ristoranti

Ristoranti virtuali e meal kit sono le risposte degli Stati Uniti alla mancanza di voglia di uscire a cena, anche laddove si è deciso di riaprire. E il dibattito sul razzismo in ottica gastronomica non si arresta

Our Gost-Kitchen Future – The New Yorker, 28 giugno

Questo longform di Anna Wiener getta lo sguardo sui mutamenti scatenati dall’emergenza coronavirus sul mondo della ristorazione, e lo fa ricostruendo un quadro dettagliato di ciò che si sta muovendo negli Stati Uniti intorno al delivery, in particolare. Da brava scrittrice di tecnologia e Silicon Valley qual è, esplora l’universo delle startup, raccontando soprattutto quanto sta facendo Reef, un’azienda che si occupa di gestire centinaia di parcheggi urbani e che sta provando a ridefinirne la funzione, facendoli diventare piccoli hub in cui concentrare un po’ di tutto, come fossero luoghi di prossimità in cui ritirare pacchi e cibo da asporto per poi rintanarsi in casa. Il focus è ovviamente sul cibo, su come la ristorazione tradizionale abbia cercato di reinventarsi e su come siano esplosi i ristoranti virtuali, insegne che non corrispondono a un luogo fisico ma fanno cucina e consegnano i piatti a casa. Nella proliferazione di queste cucine fantasma c’è un pezzo di futuro, e questo è il primo punto significativo che dobbiamo tenere presente qualora volessimo immaginare come sarà la ristorazione da oggi in poi: se parliamo di Stati Uniti il caso è ancora più significativo, visto che si accompagna alla moltiplicazione di startup, applicazioni e marchi ristorativi che parlano la lingua del web ed esistono in funzione del web. Non proprio la cara vecchia osteria, per intenderci. Ma c’è anche un secondo punto sviluppato nell’argomentazione da Wiener e su cui vale la pena soffermarci: questi progetti di stampo digitale e che ruotano intorno ai marchi fantasma hanno la pretesa di costruire nuove economie di prossimità su nuove fondamenta, nello specifico di natura altamente tecnologica. Così facendo distruggono, perlomeno potenzialmente, le economie di prossimità che già esistono, e che non vivono nell’etere ma sulla nuda terra. Quindi va bene l’entusiasmo per l’innovazione e il prendere atto che il futuro della ristorazione sarà in parte anche quello, ma la cara vecchia osteria con i suoi muri, le sedie e i tavoli…

Restaurants Think Inside the Box – Taste, 30 giugno

L’articolo di Priya Krishna si muove non lontano da quello di Wiener. Si parla però, invece che di ristoranti fantasma, di ristoranti in carne e ossa che al posto del classico delivery di piatti pronti hanno puntato sui meal kit: scatole in cui mettere gli ingredienti scomposti e le istruzioni per cucinarli, e così replicare le ricette (anche dei grandi ristoranti) a casa. Anche qui sono due i punti salienti. Il primo ha a che fare con il valore formativo di tale format: volenti o nolenti si impara qualcosa sulla cucina, dovendosi mettere ai fornelli seguendo le indicazioni di cuochi professionisti, spesso anche molto bravi. Il secondo invece riguarda l’idea secondo cui attraverso i meal kit si possono replicare i piatti del ristorante a casa: qui è necessaria una precisazione, perché solo alcuni piatti si prestano a questa operazione (quelli che non richiedono strumentazione iper-professionale e tempi lunghissimi di preparazione), e in fondo i ristoranti hanno la fortuna che hanno proprio perché spesso offrono qualcosa che tra le mura di casa non facciamo più o non faremo mai.

The meal kits from restaurants you can plate up at home – The Guardian, 28 giugno

Ah, di quest’ultimo argomento ne parla anche il critico gastronomico inglese Jay Rayner.

I’m Not Ready to Go Back to Restaurants. Is Anyone? – The New York Times, 30 giugno

Tutto questo arrovellarsi sul futuro della ristorazione statunitense (e non solo) ha origini ben precise: deriva dal fatto che negli Stati Uniti il contenimento della diffusione del virus ancora non c’è stato, e anzi le statistiche sembrano raccontare un paese ancora fortemente colpito e incapace di rispondere. IN questo articolo Tejal Rao racconta come non senta l’impulso di tornare a mangiare al ristorante per una serie di motivi: i dipendenti dei locali sono così in pericolo, i ristoranti e i bar aperti pare che siano i maggiori potenziali focolai di nuove infezioni, e la normalità sembra ancora lontana anni luce.

Why This Restaurant Critic Isn’t Dining Out Right Now – Eater, 1 luglio

Ryan Sutton, critico gastronomico colpito dal coronavirus, qui spiega, sulla falsariga di Rao, perché non ha nessun senso, secondo lui, tornare a mangiar fuori negli Stati Uniti di oggi. Oltreoceano la paura è ancora tanta.

Perché bisogna parlare dei residui razzisti nell’industria alimentare italiana – Munchies, 1 luglio

Il tema dei nomi di prodotti alimentari che potrebbero risultare offensivi per alcune minoranze, soprattutto in ottica etnico-razziale, è assai scivoloso per due motivi: il primo è che si tratta di una barca su cui è salita la diatriba politica e quindi schierarsi equivale a essere pro-uno e contro-l’altro, il secondo è che convivono sia stupida indignazione, sia effettiva eredità razzista. Giorgia Cannarella ha sviscerato la storia di alcuni prodotti che effettivamente, fin dal nome, sono offensivi verso le persone nere. No, non c’è il Negroni, al di là di ogni possibile battuta. Ma la nostra storia alimentare non è esente dalla creazione di dolci e caramelle in primis che qualche problemino (per usare un eufemismo) in questo senso lo presentano. Quindi ben venga la denuncia degli “indignados” a tutti i costi, ma a volte a indignarsi si fa centro: servono entrambe le cose per fare un ottimo servizio alla verità.

Black Wine Professional Demand to Be Seen – The New York Times, 29 giugno

Visto che abbiamo reintrodotto il tema del razzismo, chiudiamo con l’articolo di Eric Asimov, critico del vino per il New York Times, che affronta la questione dal punto di vista del settore in cui lui stesso si muove. Se ne era parlato molto negli Stati Uniti nei giorni precedenti, e in questa rubrica avevamo condiviso un articolo sulla polemica nata intorno ai Master Sommellier statunitensi e l’uso del termine master, appunto. Con Asimov gettiamo uno sguardo ulteriore su questo mondo e sul dibattito che ne è scaturito.

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