Uscire dall’EuronoiaSette idee per un Recovery Plan culturale dell’Unione Europea

Se davvero le istituzioni continentali possono fare quadrato e sconfiggere i sovranisti di oggi, accanto agli aiuti per coprire le difficoltà economiche degli Stati membri abbiamo bisogno di un programma per dare nuovo slancio a formazione, istruzione e conoscenze dei cittadini

Testo tratto dai Quaderni di Civita a cura dell’Associazione Civita

Come è già accaduto in passato, è possibile che le istituzioni europee escano rinforzate dalla crisi del covid-19. La recente iniziativa franco-tedesca sul Recovery Plan ha fatto addirittura parlare i più entusiasti di un “momento hamiltoniano” per l’Europa, che sta infrangendo il tabù della mutualizzazione del debito.

Sul piano delle policies è indubbiamente possibile che le cose stiano così. Ma il problema è che, ancora una volta, ai passi avanti compiuti sul piano della Ragione, non corrisponde un parallelo progresso del Sentimento. Al contrario, il virus ha rivelato ancora una volta la mancanza di una cultura europea profondamente radicata nelle coscienze dei cittadini così come dei decisori pubblici.

Nei primi giorni della crisi, il riflesso istintivo di tutti è stato quello di chiudersi nella dimensione nazionale in un “si salvi chi può” generalizzato e scomposto, tra chiusure delle frontiere e blocchi del materiale sanitario. In quei giorni decisivi, non solo gli atti, ma perfino la retorica dei principali responsabili politici, anche i più europeisti, ha abbandonato qualsiasi pretesa europea per chiudersi in una dimensione prettamente nazionale.

Ecco perché tutti coloro i quali pensano oggi che sia arrivata l’ora di un New Deal europeo dovrebbero ricordarsi che il New Deal originale, quello di Franklin Delano Roosevelt, non fu fatto solo di politiche economiche e sociali, ma anche di un’azione politica e culturale per far evolvere le mentalità. È questo mix di politiche e di politica, di sostanza e di simboli che, attraverso la mobilitazione di energie intellettuali e creative e il ricorso alla radio e alle più sofisticate tecniche di marketing dell’epoca, ha permesso a Roosevelt di sconfiggere i nazional-populisti del suo tempo.

Ecco perché, se davvero vogliamo far fare un passo avanti all’Unione e sconfiggere i sovranisti anti-europei di oggi, accanto al Recovery Plan finanziario abbiamo bisogno di un Recovery Plan culturale dell’Europa.

L’obiettivo del presente documento è di delineare i contorni che un’iniziativa del genere potrebbe assumere se gli organi comunitari decidessero di imboccare questa strada. Le proposte individuate non costituiscono una lista esaustiva delle misure da adottare per andare in questa direzione: molte altre piste possono essere esplorate. Ma hanno tutte in comune l’idea che, oltre al tabù della mutualizzazione del debito, sia arrivato il momento di infrangere un tabù forse ancor più radicato nella costruzione europea così come l’abbiamo conosciuta finora: quello della neutralità identitaria.

Sulla base di questo principio, la cultura e l’identità appartengono alle nazioni, mentre l’Europa è il luogo della razionalità pura, che si limita ad affrontare problemi pratici svuotandoli il più possibile di ogni contenuto emotivo. È la logica della “sdrammatizzazione”, adottata dai fondatori della Comunità Europea all’indomani della Seconda Guerra mondiale, l’idea di ridurre al minimo i conflitti e le controversie per concentrarsi sulle technicalities.

Un approccio che è alla base del successo della costruzione europea, dal momento che ha permesso di creare nel corso dei decenni una fittissima rete di interconnessioni materiali tra gli Stati del continente, ma che non ha permesso l’emersione di un vero demos europeo: un popolo unito da valori e sentimenti comuni.

Al contrario, ne ha attivamente scoraggiato la formazione, ricoprendo tutte le questioni legate all’Europa di un velo di noia altamente dissuasivo nei confronti di chiunque non fosse un addetto ai lavori. In politica, si sa, la noia è il delitto perfetto. Se riesci a rendere un argomento così noioso che tutti se ne disinteressano, poi puoi fare quello che ti pare. E così è stato, per l’Europa, almeno fino a Maastricht e in parte fino ai nostri giorni.

Una delle conseguenze di quest’approccio è che le politiche culturali sono sempre state l’ultima ruota del carro dell’Unione. Introdotta per la prima volta tra le competenze europee solo nel 1992, trentacinque anni dopo la fondazione della Comunità, la cultura è rimasta la Cenerentola delle politiche dell’Unione, come dimostra lo 0,001% che il bilancio ancor oggi consacra a questo settore. Come racconta Robert Menasse nel suo romanzo consacrato a Bruxelles, quando nominano la cultura, gli eurocrati, lo fanno “con il tono che userebbe un broker di Wall Street parlando di un parente bislacco con l’hobby della numismatica”.

Un’altra conseguenza è il rigetto deliberato della dimensione simbolica in favore di un pragmatismo il più possibile sprovvisto di ogni forma di lirismo. A partire dall’inno senza parole, dalle banconote senza volti e dalla capitale senza monumenti, il deficit simbolico dell’Unione non è il frutto del caso, né della supposta incultura degli eurocrati: si tratta al contrario di uno dei suoi elementi costitutivi.

Il risultato della strategia dell’Euronoia è sotto gli occhi di tutti: una macchina poderosa, ma senz’anima, che presidia bene o male il terreno della razionalità, ma abbandona completamente alle nazioni, e ai nazionalisti, il campo delle emozioni e dei sentimenti.

Gli unici che parlano in modo appassionante dell’Europa, oggi, sono i suoi nemici. I Viktor Orban che sostengono di incarnare i veri valori dell’Europa contro la decadenza dei degenerati liberali dell’ovest. Gli Steve Bannon che sognano di formare dei nuovi gladiatori del popolo nei monasteri del milleduecento. I Philippe de Villiers che ricostruiscono la storia dell’Unione come una spy story orchestrata dalla Cia.

Se i pro-europei vogliono essere in grado di contrastare la loro visione, la prima cosa da fare è smettere di essere noiosi.

Ecco perché la costruzione europea non è un lavoro solo per i politici, ma anche per gli scrittori, per i registi, per i creatori di videogiochi. Quando hanno chiesto a Adam Price, il creatore di “Borgen”, cosa l’avesse spinto a scrivere una serie tv sulla politica danese, quello ha risposto che voleva rendere umano e appassionante un processo misterioso e noiosissimo. È ciò di cui avrebbe bisogno l’Europa per prendere in contropiede i nazional-populisti: qualche serie tv fatta bene in più e qualche convegno sul multilateralismo in meno.

1. Un autoritratto dell’Europa del XXI secolo

Il primo elemento di un possibile New Deal culturale potrebbe essere ripreso direttamente dal modello originale di Franklin Delano Roosevelt. Lanciato nel 1935, il Federal Writer’s Project è nato con lo scopo di aiutare gli autori a sopravvivere durante la Grande Depressione, ma anche di creare “un autoritratto dell’America” finanziando la redazione di guide consacrate ai 48 Stati dell’epoca, di saggi di etnografia e di storia locale, di romanzi e di libri per bambini. In totale, si stima che circa 10 mila scrittori abbiano beneficiato del programma, che ha permesso ad autori come John Steinbeck e Zora Neale Hurston di muovere i loro primi passi.

Lungi dal tradursi in una rappresentazione edificante dell’esperienza americana, il “Writer’s Project” ne ha affrontato, in alcuni casi per la prima volta, alcuni dei nodi più dolorosi. Dal trattamento riservato alle popolazioni native, al dramma della schiavitù degli afroamericani, al quale è stata dedicata una collezione ad hoc, la Slave Narrative Collection, che ha permesso di raccogliere oltre duemila racconti in prima persona.

Accanto al programma dedicato agli scrittori, il “Federal Project Number One” ha poi previsto politiche analoghe in favore delle arti, della musica e del teatro.

Tutti insieme, questi attori culturali hanno raccontato gli Stati Uniti, la sua grandezza e le sue ombre, come non era mai accaduto prima di allora e hanno dato un volto e una voce, anzi mille volti e mille voci, all’America degli anni trenta.

Perché non immaginare oggi un programma analogo per scrittori, artisti, musicisti, registi e videomaker europei? Un programma che, anziché essere neutro sul piano dei contenuti, si prefigga l’obiettivo di realizzare un gigantesco autoritratto collettivo del nostro continente?

Certo, non è difficile prevedere le polemiche che un’iniziativa del genere susciterebbe e, soprattutto, quelle che si svilupperebbero intorno ad alcune delle opere che ne scaturirebbero. I proclami indignati contro la propaganda europea e la mano dell’Eurocrazia sulla cultura. I tweet infuocati sui finanziamenti assegnati all’uno piuttosto che all’altro artista, sui contenuti immorali dell’una piuttosto che dell’altra opera.

Ma è proprio questo il punto. È proprio di questo che ha bisogno l’Europa oggi. Di una mobilitazione di energie creative che provochino anche cortocircuiti inattesi.

Moltiplicare i punti di vista e i racconti, ricominciare ad affrontare la costruzione europea in una chiave trasgressiva è l’unico modo di estrarre i dibattiti dal loro tedio mortifero per iniziare a rimettere in discussione l’egemonia culturale che i nazional-populisti sono riusciti ad imporre negli ultimi anni.

Come ha scritto Dominique Wolton in un libro recente consacrato all’Europa: “La forza della democrazia è di parlare, parlare di tutto, il silenzio produce in generale il peggio, salvo per quelli che ne approfittano”.

Meglio scegliere di mettere oggi un volto sulle banconote dell’euro e sopportare tutte le polemiche che ne scaturiranno, piuttosto che continuare ad alimentare l’Euronoia che sta affondando l’Europa.

2. Una fabbrica di meme per l’Europa

In un intervento preparato per il congresso sull’avvenire dello spirito europeo organizzato a Parigi da Paul Valery nell’autunno del 1933, dopo aver sottolineato la superiorità della propaganda nazionalista su quella europeista, Stefan Zweig metteva già il dito sulla piaga: «Se la nostra idea dev’essere realmente efficace, dobbiamo farla uscire dalla sfera esoterica delle discussioni intellettuali e consacrare tutta la nostra energia a renderla visibile e comprensibile in ambienti allargati. A tal fine, la parola non basta; dobbiamo impiegare tutti gli strumenti della propaganda contemporanea e lavorare per rendere le nostre idee spettacolari in un ambito di massa».

A quasi un secolo di distanza, la natura del problema rimane la stessa: come fare in modo che, anziché restare confinati nei comunicati stampa dei commissari e nelle relazioni ai convegni, le idee e le iniziative europee raggiungano un pubblico più vasto?

L’idea largamente diffusa, che il nuovo ecosistema dell’informazione, basato in larga misura su internet e i social network, sia intrinsecamente favorevole alle tattiche incendiarie dei nazional-populisti presenta alcuni elementi di verità, ma non può essere una scusa per rinunciare a combattere quella che l’Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Josep Borrell ha definito come «una battaglia delle narrazioni».

Nel 2015, la Commissione ha preso atto per la prima volta dell’esistenza di una guerra dell’informazione di livello globale, creando una task force incaricata di combattere le fake news e le operazioni di disinformazione qui prendono di mira l’Europa. In quattro anni, questa struttura ha svolto un ruolo importante, ma puramente difensivo. È indispensabile che sia ora affiancata da un’azione più proattiva, che promuova la competitività dell’Unione Europea sul piano della battaglia delle narrazioni, all’interno, nei confronti dell’opinione pubblica continentale, così come sulla scena globale.

Se Ursula von der Leyen desidera realmente guidare una “Commissione geopolitica”, come l’ha annunciato al momento della sua investitura, è necessario che l’Europa si doti dei mezzi che servono per rendere la propria azione visibile e comprensibile nell’età dei social network e dello Sharp Power. Non certo al fine di riprodurre le pratiche più deteriori della propaganda russa e cinese, ma per mettere a punto una strategia, di azione e di comunicazione, che permetta ai valori europei di diventare “visibili e comprensibili in un vasto ambiente” come auspicava Zweig.

Sotto questo profilo, un primo esempio da imitare è quello di Taiwan, che ha dato anche nei mesi più recenti la prova dell’efficacia delle proprie reti di comunicazione istituzionale e della sua capacità di contrastare le operazioni di disinformazione in provenienza dalla Cina.

Su questo fronte, il governo di Taiwan ha messo in campo strumenti sofisticati, ma anche accorgimenti molto semplici. Ogni ministero, ad esempio, ha reclutato una piccola squadra di autori, animatori e attori che hanno il compito di rendere virali le comunicazioni dell’amministrazione. In pratica, si tratta di traduttori che trasformano il linguaggio giuridico e burocratico degli uffici pubblici in meme – immagini, slogan, battute – in grado di catalizzare l’attenzione sui social network e, di riflesso, sui media tradizionali.

Questi soggetti godono di una libertà di parola sorprendente e non di rado creano polemiche con i loro messaggi provocatori, ma l’efficacia della loro azione è dimostrata dai numeri impressionanti della loro propagazione in rete.

Naturalmente questa è solo la punta dell’iceberg. Com’è noto, oggi le campagne di comunicazione si basano sempre più su una profilatura degli utenti che permette di inviare messaggi tagliati su misura, al buon momento e con gli argomenti giusti. Nella bubble democracy ciascuno vive all’interno della propria bolla informativa e il successo di una campagna politico-istituzionale si misura dalla capacità di penetrarle una per una.

Contrariamente alle loro apparenze ruspanti, i nazional-populisti sono diventati maestri nell’arte di utilizzare i Big Data per moltiplicare l’impatto dei loro messaggi. È accaduto così, in occasione del referendum del 2016, che gli amanti degli animali siano stati bombardati di messaggi che spiegavano a che punto le regole europee a protezione degli animali fossero più lasche e meno efficaci di quelle inglesi, mentre ai cacciatori è stato detto che solo l’uscita dall’Europa avrebbe messo al riparo il loro hobby prediletto dalle interferenze degli animalisti del continente.

I laburisti hanno votato la Brexit per salvare il welfare state e rendere di nuovo pubbliche le ferrovie, mentre i liberisti hanno fatto la stessa cosa per liberare il mercato dalle catene imposte dai burocrati di Bruxelles. La sapienza degli esperti di Big Data ha reso possibile che tutte queste campagne contraddittorie coesistessero in pace, senza mai incontrarsi, per poi addizionarsi determinando l’inattesa vittoria del «Leave».

Ancora una volta senza cadere nelle tecniche più manipolatorie dei nazional-populisti, l’idea che l’Europa debba essere in grado di comunicare direttamente (non solo attraverso i corpi intermedi tradizionali) con categorie diverse per convincerle con argomenti necessariamente diversificati, appare evidente.

Ciò presupporrebbe un investimento importante per arrivare a costituire quella che Luca Jahier chiama una “Radio Londra” per l’Europa del XXI secolo: una struttura che inizi finalmente a contrastare l’egemonia delle narrazioni nazional-populiste in rete e su una parte dei media tradizionali, mettendo gli strumenti più avanzati della comunicazione contemporanea al servizio dei valori e degli obiettivi della costruzione europea.

3. Una Storia per l’Europa

Se si confronta l’atteggiamento che la comunità accademica riserva oggi al tema europeo rispetto agli anni ottanta e novanta, si è colpiti da due elementi. Da una parte è chiaro che da allora gli strumenti per alimentare le collaborazioni e gli scambi si sono moltiplicati in misura esponenziale: in poco più di vent’anni il processo di Bologna ha rivoluzionato il settore e dato vita ad un vero spazio europeo dell’insegnamento superiore. Sotto un altro profilo, però, si registrava in passato un fervore intorno ai temi europei che pare oggi completamente scomparso.

Come sottolinea Gilles Pécout, rettore dell’università di Parigi: “Basta aprire un osservatorio sul Mediterraneo o sulla globalizzazione per veder accorrere le persone”, mentre non è questo il caso per i centri dedicati alla storia o alla filosofia dell’Europa.

Sono lontani i tempi nei quali i più grandi storici dell’epoca facevano a gara per essere i primi a redigere una storia d’Europa che non fosse solo un’opera accademica, ma l’ingrediente di un progetto di civiltà.

Concepito con la partecipazione di storici provenienti da tutti i paesi d’Europa, il progetto messo a punto da George Duby a metà degli anni ottanta prevedeva non solo “un’opera pubblicata simultaneamente in tutte le lingue”, ma anche delle “edizioni semplificate di uso più popolare, da destinare in particolare alle scuole medie”, così come “adattamenti ad altri formati mediatici, principalmente la televisione”. Purtroppo questo progetto, così come altri tentativi analoghi, non è mai stato realizzato.

Certo è vero che nel corso degli anni, diversi manuali di storia franco-tedesca hanno visto la luce e sono stati adottati nelle scuole e nelle università dei due paesi. Nel 2017 ha poi fatto la sua comparsa nelle librerie tedesche e francesi “Europa: notre histoire”, sorta di mastodonte editoriale che ha riunito in millequattrocento pagine e centocinquanta articoli i contributi di storici del mondo intero che si sono interrogati sull’esistenza di una memoria comune del continente.

Sono passi incoraggianti, ma la sfida di scrivere una storia europea e popolare, che ponga le basi di una vera e propria “educazione europea”, rimane intatta. Anche in questo caso si tratta, beninteso, di un progetto destinato a sollevare opposizioni e infinite controversie, nel mondo accademico e ben al di là di esso. Già nella seconda metà degli anni settanta, la Commissione aveva proposto, nell’ambito di un pacchetto di proposte culturali importanti, di un manuale di storia comune.

Se il Consiglio non avesse all’epoca bocciato la proposta, l’esistenza di un vero demos europeo sarebbe oggi meno evanescente e il processo di integrazione poggerebbe su una base più ampia e su radici più profonde. Ma così non è stato e il filo dell’”educazione europea” dev’essere oggi ripreso in circostanze più difficili, in una fase in cui le pulsioni nazionaliste sono riemerse con forza.

Non è questa però una ragione sufficiente per scoraggiarsi. Due tra le più importanti storie dell’Europa sono state in fondo scritte in tempi difficili: quella del belga Henri Pirenne, morto in campo di concentramento e quella di Federico Chabod, fatta a partire dai suo corsi universitari, la cui interruzione da parte dei fascisti costrinse l’accademico alla clandestinità. In confronto a ostacoli di questo genere, quelli che si frapporrebbero oggi agli ipotetici autori di un nuovo manuale di storia europea appaiono tutto sommato superabili.

4. Dopo Erasmus, Odysseus

Alcuni anni fa, Umberto Eco invocava «un Erasmus per i tassisti, gli idraulici e gli operai».

Erasmus, in effetti, è stato uno dei pochissimi programmi comunitari capaci di produrre una vera trasformazione culturale, formando alcuni spezzoni di una vera generazione europea.

Offrendo la possibilità a tutti gli universitari di trascorrere un periodo di studi all’estero, il programma si è sviluppato, trent’anni fa, a partire dall’intuizione corretta che la cittadinanza europea derivi dall’esperienza. Europei si nasce, non sempre peraltro, ma soprattutto si diventa.

Non c’è modo migliore per sentirsi parte del progetto europeo di un’esperienza all’estero, di studio o di lavoro, di un avvicinamento a realtà che possono sembrare distanti tra loro e che invece conservano un fil rouge unico, che ha a che fare con i valori condivisi, certo, ma anche con una sensibilità comune, un approccio comune, una percezione del bene collettivo condivisa.

L’impatto di Erasmus è rimasto però in larga misura limitato ad una fascia di giovani privilegiati, già predisposti a contatti internazionali dall’ambiente di provenienza e dal livello di istruzione.

I successivi tentativi di allargare la platea dei beneficiari, effettuati attraverso Erasmus +, hanno prodotto effetti positivi, ma limitati. Non sono riusciti, per ora, ad entrare nell’immaginario collettivo dei giovani europei, né a modificare in modo decisivo la loro percezione delle opportunità disponibili.

Nel 2012, un appello in favore di un anno di servizio civile europeo aperto a tutti, lanciato dal sociologo Ulrich Beck e da Daniel Cohn-Bendit ha raccolto le sottoscrizioni di centinaia di protagonisti della vita politica e culturale del continente, da Jacques Delors a Rem Koolhaas, fino a diversi premi Nobel e al presidente del Parlamento Europeo.

Da allora si sono succedute diverse iniziative e sperimentazioni, tra le quali la promettente esperienza degli European Solidarity Corps, che costituiscono la premessa indispensabile di ogni evoluzione ulteriore. Eppure nella loro forma attuale sono ancora largamente insufficienti.

Oggi esistono le condizioni per un salto di qualità che porti all’istituzione di un vero e proprio Servizio Civile Europeo, dedicato ai ragazzi dai 18 ai 25 anni, della durata dai 6 ai 12 mesi, che dia a tutti i giovani europei, non solo agli studenti e a chi è già attivo nel mondo del volontariato, la possibilità di un impegno diretto, per un periodo di tempo limitato, in campo ambientale, sociale o culturale, per migliorare il mondo in cui vivono e, nel contempo, affermare la propria presenza nella società.

Il nome che potrebbe identificare questo progetto è Odysseus. Non si tratterebbe di una scelta particolarmente originale, ma impiegare un nome tanto impegnativo al posto del solito acronimo incomprensibile sarebbe la spia di un’ambizione.

Così come Erasmus è partito alla fine degli anni ottanta, dalla figura di uno dei più grandi umanisti della storia europea, Odysseus fa riferimento al personaggio che, più di ogni altro, incarna la curiosità e l’avventura. Il viaggio alla scoperta dell’altro, che sia per virtù o per necessità. Le passioni e i sentimenti che l’Europa deve essere in grado di risvegliare nelle generazioni più giovani se vuole diventare qualcosa di più di una semplice somma di regolamenti.

Nella pratica, l’obiettivo non sarebbe più quello di coinvolgere i giovani sulla base di progetti presentati o di obiettivi concertati con associazioni come avviene oggi, bensì di introdurre un reale servizio civile europeo, di tipo volontario, tramite una vera e propria “chiamata” dei giovani europei a compiere un periodo di servizio. Pertanto la differenza tra Odysseus e gli altri programmi sarebbe chiara: superare tanto la mera cooperazione transnazionale basata su enti quanto quella bilaterale fondata su Stati, aprendo definitivamente la stagione di un servizio all’intera comunità dell’Unione da parte dei giovani europei.

Il problema non è oggi quello di aggiungere l’ennesimo tassello al mosaico infinito dei programmi comunitari. Si tratta di reinventare l’identità europea a partire dalla domanda più elementare: cos’abbiamo oggi da trasmettere a un ragazzo di 18 anni? E, soprattutto, è possibile immaginare che la costruzione europea si rimetta in moto facendo leva sull’energia delle nuove generazioni?

Se volesse davvero pesare sul destino dell’Europa, contribuendo ad invertire il processo di disgregazione in corso, Odysseus dovrebbe prima di tutto essere in grado di dare una risposta a questa domanda.

5. La Capitale

Bruxelles è una città che si può attraversare, da una parte all’altra, senza neppure accorgersi che è la capitale dell’Europa. Anche questo è un volto dell’Euronoia: in una città caleidoscopica, agglomerato multietnico di comunità diversissime tra loro, l’unico quartiere completamente privo di personalità è quello europeo, dove hanno sede le istituzioni dell’Unione e lavorano gli oltre cinquantamila dipendenti e le decine di migliaia di lobbisti, giornalisti e ricercatori che gli ruotano intorno.

Qui, nessuna prospettiva, nessun monumento, nessun luogo d’incontro. Solo una ventina di bandiere di fronte alle curve inoffensive del Berlaymont, sede della Commissione, e al confuso immobile postmoderno che ospita gli uffici del Parlamento.

In parte, l’aspetto del quartiere europeo rispecchia il fatto che Bruxelles è diventata la capitale dell’Unione un po’ di nascosto, non è mai stata formalmente in quanto tale. E perfino quando ha deciso di investire trecento milioni per costruire quella che è diventata, nei fatti, la sede del Parlamento Europeo tuttora formalmente basato a Strasburgo, lo ha fatto alla chetichella, spacciando l’enorme emiciclo per una “sala congressi”.

Evidentemente, nel corso di questo ennesimo processo semiclandestino (non è un caso se, in termini più generali, Régis Debray ha potuto parlare di una “strategia furtiva” della costruzione europea), tutto si voleva fuorché attirare l’attenzione reclutando grandi architetti e concependo progetti iconici. Il risultato è quello che ha sotto gli occhi qualsiasi visitatore del quartiere europeo: 85 isolati di uffici che rappresentano più o meno la trasposizione nel mondo reale delle banconote dell’euro, asetticamente prive di volti riconoscibili e di monumenti.

Non è questo, certo, il momento di concepire progetti architettonici faraonici per rimediare alla situazione: sarebbero certamente accolti con sfavore non solo dagli euroscettici, ma anche dalla maggioranza dei sostenitori dell’Europa. Esistono però strumenti più soft, legati all’allestimento degli spazi pubblici e a grandi progetti di arte pubblica che sono in grado di trasformare il volto di un quartiere e di generare una forte carica simbolica.

Un’Eurotopia, spazio di incontro, di riflessione e di discussione nell’ambito del quale l’architettura non crea ostacoli ma li abbatte: gli architetti del collettivo Traumnovelle hanno esposto alla Biennale di Venezia e al Bozar di Bruxelles le loro soluzioni per la reinvenzione del quartiere europeo della città. Ma molte altre idee sono possibili. Perché non lanciare un grande concorso internazionale che mobiliti i migliori architetti e artisti del continente intorno ad un obiettivo finalmente esplicito: dare un’anima alla capitale dell’Europa?

6. Una rete di Europa-café

Il buco nero dell’Europa sono le sue campagne. È lì che si concentrano oggi le maggiori resistenze al processo di integrazione, lì che la retorica dei movimenti sovranisti trova il terreno di coltura più fertile, fondandosi sulle dinamiche socio-economiche che allontanano sempre più i territori periferici dai nodi urbani che beneficiano della globalizzazione. Eppure, durante i secoli di anarchia e di violenza che sono seguiti alla caduta dell’Impero Romano, non è nelle città ma proprio nelle campagne che è (ri)nata l’Europa, grazie alla rete delle abbazie che hanno costellato il continente di centinaia di presidi di resistenza alla dissoluzione. Come ha raccontato Paolo Rumiz in un bel libro recente, i monaci benedettini hanno costruito l’Europa con la sola forza dell’esempio, rimettendo ordine in un territorio in preda all’abbandono, preservando e trasmettendo i classici dell’antichità, costituendo delle isole di civiltà e di solidarietà nel mezzo del caos.

Non si pensi però ad un processo esclusivamente austero. Come nota sempre Rumiz, la geografia delle vigne storiche in Europa ricalca in buona parte quella dei conventi. I monaci conquistarono l’Europa anche con il vino e con la birra, della quale restano tuttora tra i migliori produttori.

Oggi è evidente che la capacità di riconquistare le campagne, per l’Europa dipende in primo luogo da politiche economiche e sociali che riducano la distanza tra centro e periferia. Nessuno pensa che iniziative di carattere culturale possano, da sole, invertire la tendenza alla polarizzazione in corso da decenni. Il che non impedisce però di pensare che la cultura abbia un ruolo da giocare.

La Commissione Europea ha messo in campo già da diversi anni iniziative ad hoc sia per preservare le tradizioni, sia per promuovere nuove iniziative culturali nelle campagne. Ancora una volta, però, un New Deal culturale dovrebbe avere la capacità di pensare fuori dagli schemi.

Se i caffè, come diceva George Steiner, sono un altro dei fondamenti sui quali si basa la cultura europea, perché non riprendere su scala continentale l’iniziativa “1000 caffè per rivitalizzare le campagne” lanciata dalla Ong “S.O.S.” con il sostegno del governo francese? Come indica il suo nome, si tratta di un bando pubblico rivolto ai comuni di meno di 3500 abitanti che permetterà l’apertura di mille caffè. Unica condizione per accedere al finanziamento: che il comune non disponga già di un caffè o che questo sia minacciato di chiusura.

Oltre a funzionare come caffè, questi luoghi svolgeranno anche altre funzioni (deposito di pane, esercizio alimentare con prodotti locali, sportello postale) e metteranno a disposizione computer per ridurre il digital divide.

Se un’iniziativa di questo genere fosse allargata su scala continentale, si potrebbe immaginare che la rete degli Europa café svolga anche un ruolo di catalizzatore culturale, diventando luoghi di aggregazione e di dibattito sulla base di formati predisposti ad hoc. Un modello su questo versante è quello dei Democracy Cafés creati dalla Ong britannica “My Life My Say” che ha ripreso la tradizione delle coffee house inglesi del XVII secolo per coinvolgere migliaia di giovani in discussioni sul loro futuro in Gran Bretagna dopo la Brexit.

Sviluppati con l’obiettivo esplicito di riparare la frattura tra giovani e anziani e tra città e campagne esacerbata dal referendum e dalle complicazioni successive, i Democracy Cafés si tengono regolarmente in centinaia di località, prevalentemente al di fuori dei grandi centri, riunendo gruppi di 30-40 ragazzi alla volta, con l’obiettivo di dare voce alle frustrazioni di una generazione che ha votato massicciamente contro l’uscita dall’Europa e che guarda oggi con preoccupazione al suo futuro.

Nel 2018, i Democracy Cafés hanno vinto il premio “Changemaker of the Year” ai National Democracy Awards assegnati dal governo del Regno Unito.

7. Un progetto Babele per la traduzione vocale

L’enorme apparato che assicura la traduzione in tutte le lingue dell’Unione dei lavori del Parlamento Europeo è spesso l’oggetto di battute e di polemiche. Si tratta, in effetti, di una struttura che mobilita risorse impressionanti, più di mille persone tra le quali oltre seicento traduttori, e produce, di tanto in tanto, effetti comici.

Pochi sanno, in compenso, che da alcuni anni la base dati del Parlamento Europeo è diventata la fonte più importante per le aziende di intelligenza artificiale che lavorano sull’elaborazione di sistemi di traduzione vocale. Dove altro trovare un archivio di traduzioni simultanee in 24 lingue, accessibile pubblicamente e realizzato con i più elevati standard di professionalità?

Ancora una volta, si conferma la regola sulla base della quale accade che investimenti pubblici producano ricadute inattese in termini di innovazione del settore privato. A questo punto perché non fare un passo ulteriore puntando su un progetto di ricerca che, così come quello sul genoma che ha mobilitato scienziati di tutto il mondo, miri a produrre entro cinque anni strumenti portatili, sotto forma di un auricolare senza fili, di traduzione diretta e verbale che permetta a due locutori di lingue diverse di parlare ciascuno, e di sentire l’altro, nella propria lingua, in modo naturale?

La Commissione, scrive Jean-Noël Tronc, ha proposto di destinare 5,5 miliardi di euro l’anno ad un “fondo di capacità” in materia di difesa comune; destiniamo 500 milioni di euro ad un progetto Babele il cui effetto politico sarebbe determinante per l’avventura europea, e i guadagni di produttività considerevoli in tutti i settori di attività dell’Unione.

Conclusioni

Ben lungi dal costituire un elenco tassativo, le proposte contenute in questo rapporto vogliono essere prima di tutto uno stimolo per iniziare a tracciare i contorni di un possibile, necessario New Deal culturale dell’Europa.

È evidente che il futuro dell’Unione dipenderà dalle risposte che saprà apportare alle immense sfide economiche e sociali del nostro tempo, a partire dall’aumento delle diseguaglianze.

Ma, come dice Paul David Henson, in arte Bono, dipenderà anche, il futuro dell’Europa, dalla sua capacità di trasformarsi da un’idea a un sentimento. Perché in politica i sentimenti tendono a prevalere sulle idee e lasciarli tutti dal lato delle nazioni e dei nazionalisti è un rischio che non possiamo permetterci di correre.

Certo, esistono delle policies che hanno la capacità di trasformarsi in caratteri identitari. È stato così per il National Health Service, il sistema sanitario del Regno Unito che è diventato uno dei principali motivi di orgoglio dei cittadini britannici (ed è stato usato come un’arma di propaganda dalla campagna in favore del Leave).

Le due direttrici di policy individuate dalla presidente Von der Leyen all’inizio del suo mandato – il digitale e l’ambiente – hanno il potenziale di entrare a far parte dell’identità dell’Europa del XXI secolo.

Da una parte, la capacità di imporre anche nella sfera digitale i principi che costituiscono il fondamento della convivenza civile nella vita reale del nostro continente. A questo proposito si potrebbe dire che, anziché attribuire al commissario responsabile delle politiche migratorie, il titolo di “Commissario per la protezione dello stile di vita europeo”, sarebbe spettato al commissario responsabile del digitale…

Dall’altra, la sfida colossale di ripensare la nostra economia e la nostra società, tenendo conto dei vincoli imposti dalla sostenibilità ambientale, con l’obiettivo anche in questo ambito di diventare un punto di riferimento di livello globale.

Perché l’Europa si trasformi in un sentimento, però, le scelte tecniche, per quanto rilevanti, non basteranno.

La noia ha fatto molto per l’Europa, ma oggi non basta più. Le direttive sulla marmellata ci servono ancora, ma abbiamo ancor più bisogno di idee e di storie. L’Unione Europea è il primo tentativo nella storia di creare un insieme sopranazionale in tempo di pace, senza armi e senza minacce, sulla base della libera adesione dei popoli. A chi scrive non viene in mente nessun progetto politico più esaltante di questo: nulla di più vasto, nulla di più bello nella storia recente del genere umano.

Altro che Route 66 e Khyber Pass, noi possiamo scendere sotto casa, metterci al volante e guidare fino a Tallinn senza mostrare il passaporto neppure una volta. L’Euronoia ce l’ha presentato come un fatto banale, mentre è un evento inaudito, favoloso.

Affinché un’epoca sia rivoluzionaria, però, è necessario che qualcuno se ne accorga. Nel corso degli ultimi decenni, l’europeista è diventato un essere di prudenza e non di conquista, il che ha permesso ai suoi avversari di identificarsi con il cambiamento, pur propugnando un pericoloso ritorno al passato.

La crisi del Covid-19 ha segnato una battuta d’arresto per i movimenti sovranisti in tutta Europa. Ma sarebbe illusorio pensare che questa tendenza sia destinata a consolidarsi se la costruzione europea non saprà apportare risposte alle aspirazioni dei suoi cittadini. Sul piano materiale, certo. Ma anche su quello emotivo.

Solo gli ingenui sottovalutano il peso degli ideali e delle passioni. I realisti, al contrario, conoscono da sempre il loro potere e sanno che nessun cambiamento profondo è possibile in loro assenza.

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