Contro la decrescitaL’unico ambientalismo possibile è quello dello sviluppo capitalista

Per risolvere i problemi dell’ambiente non servono cambiamenti radicali. Al contrario, dobbiamo fare di più di quello che stiamo già facendo: far crescere economie di mercato tecnologicamente sofisticate in tutto il mondo, lo spiega Andrew McAfee in “Di più con meno” (Egea)

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Ethan Miller / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP

Possiamo dire che negli ultimi anni si è diffuso anche il capitalismo? Nel 1978, due anni dopo la morte di Mao Zedong, il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese si riunì per decidere la strategia economica del paese.

Il leader supremo Deng Xiaoping convinse i colleghi ad adottare un approccio radicalmente diverso dal percorso marxista di forte pianificazione centrale e ostilità nei confronti della proprietà privata e del commercio internazionale che aveva prevalso fino ad allora.

Il nuovo approccio di «riforma e apertura» fu definito anche «socialismo con caratteristiche cinesi», ma una dicitura migliore potrebbe essere «autoritarismo cinese con alcune caratteristiche capitalistiche».

Le prime riforme permisero agli agricoltori di possedere e vendere il proprio raccolto, aprirono il paese agli investimenti esteri e consentirono agli imprenditori di avviare il loro business.

Con questi cambiamenti, la Repubblica Popolare Cinese, un paese che nel 1978 contava oltre 950 milioni di persone, compì i suoi primi passi verso l’ordine economico capitalista. In un’intervista del 1985 alla rivista Time,

Deng rilasciò una dichiarazione significativa: «Non sussistono contraddizioni fondamentali tra il socialismo e l’economia di mercato».

Più o meno negli stessi anni, anche Michail Gorbačëv iniziò a discutere esplicitamente di apertura e ristrutturazione economica. In un discorso molto schietto tenuto a Leningrado nel 1985, l’allora segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica riconobbe che la crescita del paese stava rallentando e che troppe persone erano rimaste in uno stato di povertà.

Anche nel suo caso, come in quello di Deng, la soluzione prospettata era spingere per una pianificazione meno centralizzata e per un incremento del commercio internazionale anche grazie alla libera impresa basata sul mercato.

Seguì una pioggia di riforme, la più radicale delle quali – ovvero la legge sulle cooperative del 1988 – legalizzò le imprese private per la prima volta dal 1928, anno in cui Stalin le aveva proibite in tutto il paese.

A ogni modo, tutti questi cambiamenti non bastarono a salvare l’Unione Sovietica dalle mille forze disgregatrici cui era sottoposta. La bandiera con la falce e il martello venne ammainata per l’ultima volta sul pennone del Cremlino il giorno di Natale del 1991.

Poco dopo Gorbačëv firmò un documento in cui rinunciava alla presidenza e, dopo oltre sei decenni, restituiva l’autogoverno alle quindici repubbliche che avevano costituito l’URSS. Durante la cerimonia, il pennarello di fabbricazione russa provato da Gorbačëv si rifiutò di funzionare, costringendo quest’ultimo a chiedere in prestito una penna stilografica al presidente della CNN Tom Johnson.

Quella firma, una volta apposta, decretò la fine del socialismo di stampo sovietico per gli oltre 400 milioni di persone che vivevano al di là della Cortina di ferro.

Sempre nel 1991 il ministro delle Finanze indiano, Manmohan Singh, presentò un bilancio che avrebbe cambiato radicalmente il proprio paese. Il piano prendeva le mosse dalla situazione fiscale disastrosa di quel momento: per via degli shock del prezzo del petrolio, dell’ingente spesa pubblica, del rallentamento della crescita economica e di altri fattori, il governo indiano era rimasto quasi al verde.

Con riserve in valuta estera appena sufficienti per due settimane, Delhi si trovò nella posizione umiliante di dover trasportare (tramite ponte aereo) quarantasette tonnellate d’oro in Inghilterra (sua madrepatria coloniale fino al 1947) come garanzia per un prestito. Singh propose profondi cambiamenti al funzionamento dell’economia del suo paese.

Per rendere i prodotti indiani più competitivi sui mercati internazionali era necessario svalutare la rupia. Bisognava incentivare gli investitori stranieri. L’elaborato sistema di licenze che determinava chi autorizzare a produrre quali beni e servizi andava semplificato, così come il fitto groviglio di regolamenti con cui dovevano confrontarsi le imprese esistenti e future.

Nell’introdurre queste riforme, parafrasando Victor Hugo Singh affermò: «Nessun potere al mondo può fermare un’idea il cui tempo è arrivato». L’idea era che l’India puntasse con maggior decisione verso il capitalismo. Anche se molte restrizioni e normative sopravvissero al suo intervento, il paese era cambiato per sempre.

Per usare le parole dell’Economist, «il 1991 […] merita il suo posto negli annali della storia economica accanto al dicembre 1978, quando il Partito Comunista Cinese approvò l’apertura economica del paese, o persino al maggio 1846, quando la Gran Bretagna abrogò le Corn Laws».

Tutt’a un tratto 840 milioni di indiani si ritrovarono a operare in un contesto economico trasformato, un contesto con una pianificazione molto meno centralizzata e un maggiore accesso al libero mercato, alla concorrenza e allo scambio volontario.

Tra il 1978 e il 1991, dunque, oltre 2,1 miliardi di persone – circa il 40 per cento di quella che nel 1990 era la popolazione mondiale16 – si sono ritrovati all’interno di sistemi economici improvvisamente votati a un maggior capitalismo.

Si tratta certamente dello spostamento più importante e più rapido verso la libertà economica cui il mondo abbia mai assistito. Uno spostamento ancora più grande e più brusco di quello comportato dall’adozione del comunismo da parte dell’Unione Sovietica e della Cina, sviluppatosi nel corso degli oltre tre decenni intercorsi tra la rivoluzione bolscevica di Lenin del 1917 e la vittoria finale dell’esercito di Mao nel 1949.

E cos’è avvenuto dal 1991 a oggi? Il capitalismo ha continuato a diffondersi? Come vediamo con il tragico esempio del Venezuela, gli esperimenti socialisti non sono certo cessati. Tuttavia, costituiscono l’eccezione, non la regola.

Dal 1995 la Heritage Foundation stila un Indice della libertà economica per quasi tutti i paesi del mondo, allo scopo di quantificare, appunto, quelli che definisce come i quattro «pilastri della libertà economica»: stato di diritto, dimensioni del settore pubblico, efficienza normativa e apertura dei mercati.

A livello globale, questo indice è aumentato del 6 per cento dal 1995, passando da un punteggio di 57,6 a uno di 61,1. La crescita è in gran parte trainata dall’Europa, grazie al fatto che gli ex paesi comunisti stanno proseguendo nella loro transizione verso il capitalismo.

Il punteggio complessivo dell’Europa è aumentato di quasi il 20 per cento tra il 1995 e il 2018. Le altre regioni del mondo, pur se molto più lentamente, hanno visto comunque incrementare il proprio indice, con l’unica eccezione dell’America Centrale e Meridionale dove, nello stesso arco di tempo, si è invece assistito a un lieve declino generale della libertà economica.

Come abbiamo visto nel Capitolo 7, il progresso tecnologico e il capitalismo sono partner naturali, dal momento che combinano il carburante dell’interesse con il fuoco del genio. L’analista esperto di tecnologia Benedict Evans illustra quanto bene questa sinergia abbia funzionato negli ultimi anni nel portare la comunicazione e l’informatica in mobilità agli utenti di tutto il mondo.

In particolare dimostra come la mancanza di concorrenza vigente nei paesi in cui lo stato esercita il monopolio sulle telecomunicazioni abbia frenato i progressi. Per farlo, cita l’esempio del Brasile, che nel 1998 ha privatizzato Telebrás, l’azienda di stato fino ad allora in regime di monopolio.

Come scrive Evans, «quando Tele São Paulo fu privatizzata e successivamente acquistata da Telefónica, c’era una lista d’attesa con 7 milioni di linee, su una popolazione di 20 milioni […]. Oltre ai 7 milioni di persone in attesa di una linea, era abbastanza usuale che il tuo numero venisse scambiato con quello di qualcun altro… così, giusto per».

Sembrava inoltre che Telebrás usasse gonfiare (e non di poco) gli organici: «Telefónica scoprì che nell’edificio della sede centrale non c’era abbastanza spazio per contenere fisicamente tutte le persone che risultavano lavorare lì».

Nel frattempo, secondo una stima, il 45 per cento circa delle aziende di São Paulo non aveva una linea telefonica19. Evans riassume così quanto sia importante combinare il progresso tecnologico con il capitalismo: «L’80-90 per cento della popolazione mondiale gode della copertura di rete mobile, e un 50 per cento (in costante crescita) possiede un telefono. [Tele São Paulo] […] e simili avrebbero potuto fare una cosa del genere? Mai e poi mai […]. Il fatto che 5 miliardi di persone abbiano un telefono e che 2,5 miliardi di persone dispongano già di uno smartphone rappresenta una grande conquista dovuta in primo luogo al libero mercato e all’innovazione senza licenze».

Non potrei essere più d’accordo.

da “Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse”, di Andrew McAfee, Egea 2020, 26 euro

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