Sono passati sei anni da quando l’Isis è entrato nella città irachena di Sinjar (o Shengal), uccidendo e rendendo schiavi migliaia di uomini, donne e bambini appartenenti alla minoranza yazida, fede religiosa diffusa principalmente nel nord-ovest dell’Iraq. Considerati degli infedeli dai miliziani dello Stato islamico, gli yazidi sono stati tra le principali vittime della ferocia dei jihadisti e molti di loro continuano tuttora a soffrire nel silenzio e nell’indifferenza della loro stessa comunità di appartenenza, incapace di riaccoglierli e di aiutarli a superare i traumi della guerra.
Nell’estate del 2014 i miliziani dell’Isis hanno preso d’assedio e raso al suolo le città yazide del nord dell’Iraq: l’unica possibilità per scampare alla morte era convertirsi all’islam e rinunciare alla propria cultura e religione. Lo stesso ultimatum fu lanciato il 3 agosto di sei anni fa agli abitanti di Sinjar, ma anche loro rifiutarono di scendere a compromessi con l’Isis e, abbandonati a loro stessi dai Peshermga iracheni che avevano giurato di difenderli, furono massacrati dai miliziani jihadisti.
I soldati dell’Isis hanno ucciso almeno 4mila persone, altre 7mila sono state rapite e costrette in schiavitù e ad oggi sono almeno 3mila gli yazidi, in maggioranza donne e bambini, di cui non si conosce la sorte. L’Onu ha condannato l’operato dell’Isis e definito l’uccisione sistematica della minoranza yazida nel nord dell’Iraq come genocidio e crimine contro l’umanità, anche se questo non ha per adesso aiutato a fare giustizia. Lo stesso governo iracheno ha fatto ben poco per garantire la sicurezza degli yazidi o per facilitarne il ritorno, lasciando 400mila persone ancora nei campi profughi sparsi per il nord del Paese e della vicina Siria.
Basta guardare la città di Sinjar e i suoi dintorni per capire quanto ancora lontano sia il ritorno alla normalità: le abitazioni, le scuole, i negozi e la generalità degli edifici rasi al suolo o resi inagibili dai raid e dalle bombe del periodo bellico sono per lo più ancora inutilizzabili, le strade restano impercorribili e non è garantito nemmeno l’accesso ai servizi di base. Il tutto senza contare l’alto numero di mine anti-uomo ancora nascoste nelle case e nei terreni dai miliziani in fuga e che rendono ancora più complicato il ritorno alla normalità.
A soffrire per mano dell’Isis sono stati principalmente i minori, costretti prima alla schiavitù o all’arruolamento forzato e poi ignorati dalla propria comunità di appartenenza. A raccontare la sorte dei 2 mila giovani yazidi che sono riusciti a tornare a casa è il report di Amnesty International, che fotografa una situazione allarmante: i ragazzi e le ragazze scampati alla violenza dell’Isis si ritrovano adesso a dover affrontare da soli problemi mentali e fisici che richiederebbero invece il sostegno non solo dei propri cari, ma anche di figure professionali in grado di aiutarli a superare i traumi subiti.
A destare particolare preoccupazione sono i minori costretti a combattere tra le fila dell’Isis, le bambine che hanno subito violenza sessuale e date in sposa ai miliziani e le donne obbligate ad abbandonare i figli nati dallo stupro.
Come sottolineato da Amnesty, si tratta di giovani che soffrono principalmente di sindrome post-traumatica, stress, ansia, depressione, incubi, soggetti a repentini sbalzi di umore, inclini a comportamenti aggressivi e isolati rispetto al resto della comunità. Ai danni psicologici si aggiungono anche quelli fisici, causati dalla perdita di arti a causa della guerra o dalle violenze sessuali subite dalle ragazze date in sposa ai miliziani o usate come schiave.
A peggiorare ulteriormente la condizione di questi giovani è la distruzione della loro stessa identità portata sistematicamente avanti dai miliziani dello Stato islamico: i ragazzi tornati a casa sono stati indottrinati e in alcuni casi non sono più in grado di parlare la loro lingua, essendo stati costretti ad aderire all’islam e a comunicare unicamente in arabo.
Ad essere stigmatizzate dalla propria comunità sono anche le ragazze, la maggior parte delle quali ha subito ripetuti abusi sessuali in quanto cedute o vendute come mogli ai miliziani dell’Isis. Anche nel loro caso il Governo iracheno non ha fornito alcun sostegno psicologico e non è nemmeno intervenuto per risolvere i problemi legati alla sorte dei figli nati dallo stupro.
Le donne tornate a casa con i propri bambini sono state costrette ad abbandonarli a causa di una pronuncia del Consiglio supremo spirituale yazida e dello stesso sistema legislativo iracheno, secondo cui i figli di padre sconosciuto o musulmano devono essere registrati all’anagrafe come musulmani. Così facendo, questi bambini sono stati automaticamente esclusi dalla comunità yazida e separati dalle proprie madri.
Un simile comportamento ha aggravato ulteriormente la condizione delle donne, isolandole ancora di più dalla propria famiglia e condannandole per aver avuto contro la propria volontà dei figli con i miliziani dell’Isis. «Voglio chiedere a tutti di accettare noi e i nostri figli», è il commento rilasciato ad Amnesty da una ragazza yazida di 22 anni. «Non volevo avere un figlio da queste persone. Mi hanno costretta. Non chiederei mai di essere riunita con suo padre, ma ho bisogno di riavere mio figlio».
Un ultimo punto su cui si concentra il report della Ong britannica riguarda l’alto tasso di abbandono scolastico dei ragazzi e delle ragazze tornati a casa dopo anni di schiavitù. Il Governo iracheno e la stessa comunità yazida non hanno preso le misure necessarie per aiutare i giovani a tornare a scuola, contribuendo ulteriormente al loro isolamento e compromettendone il ritorno alla normalità.
«Per sopravvivere sono stato costretto a combattere. È la cosa peggiore che possa capitare a un essere umano, la più degradante», ha raccontato un ragazzo catturato dall’Isis a soli 15 anni. «Quando sono tornato volevo trovare qualcuno si prendesse cura di me, che mi aiutasse, che mi dicesse “sono qui per te”. Ma non l’ho mai trovato».