Un amico che ama vivere in solitudine mi scrive: «Nella zona dove vivo i negozi hanno riaperto, a parte alcuni dall’aspetto malconcio. La gente ha ripreso a guardare le vetrine, folle di persone si muovono come piccole onde lungo il marciapiede, i tavolini dei ristoranti si sono rovesciati sulla strade. In tanti modi diversi la vita ha ripreso a scorrere, anche se non ancora con la normale intensità. Io non ne sono molto contento. In un certo senso, il lockdown mi si addiceva. Fa sì che le persone normali si sentano intrappolate e imprigionate. Ma per me è stato una liberazione. Indugiare a casa, in mezzo ai barattoli di zuppa che avevo accumulato, evitare il contatto umano, vivere come se la società fosse crollata e, così facendo, passare settimane e mesi: tutto questo ha alleggerito il peso delle mie oppressioni.
Non dovevo più costringermi per uscire di casa ed entrare nel mondo. Il fascino della reclusione, che mi attira con tanta insistenza, si è rivelato indistinguibile dai doveri della responsabilità civica. La solitudine era solidarietà. Ero un cittadino modello. Per cui mi dispiace di vedere perfino queste timide riaperture. Mi consolo sottolineando che, nonostante le piccole folle che girano per strada, i segni di una gioia pubblica restano sottili. Solo di rado sento strombazzare, alla finestra, i clacson. Una gioia che ancora deve ritornare. A parte i manifestanti arrabbiati, che scandivano slogan mentre marciavano, nessuno per strada, per sei mesi fino ad adesso ha ancora accennato a cantare».
(Articolo pubblicato in inglese su Tablet)