Il consumo di stagioneI libri stanno bene su tutto, soprattutto sulle corna

Ci sono prodotti culturali di successo, come “Donne che amano troppo”, che hanno riempito le nostre librerie adolescenziali perché ci raccontavano come volevamo percepirci. Ora tornano in testa alla classifica perché li legge la protagonista di Uomini e Donne, per l’invidia dello scrittore vicino di ombrellone

A tredici anni non avevo ancora mai sentito Carlo Fruttero dire che tra i libri bisogna passeggiare, ma avevo già chiarissimo che certi tomi fosse necessario possederli, mica leggerli. 

E quindi comprai “Donne che amano troppo” con lo spirito con cui avevo visto i grandi comprare “Il nome della rosa”: mica vorrai essere escluso dal consumo di stagione? 

Il consumo di stagione, per una preadolescente ontologicamente convinta che l’amore infelice sia la più importante delle istanze, e alla quale nessuno aveva spiegato quanto avrebbe riso da adulta di questa convinzione, non poteva che essere quel lungo articolo di Cosmopolitan mascherato da saggio serio, quel raffaelemorellismo quando la tv ancora non pullulava di psicologi e si pensava che gli editori seri (Feltrinelli, in quel caso) pubblicassero roba seria. 

(Mancavano dieci anni a quella perdita dell’innocenza che sarebbe stata “La lettera d’amore”, romanzaccio rosa che venne comprato da tutte noi che mai avremmo comprato da adulte quegli Harmony con cui ci eravamo dilettate nelle estati d’infanzia, ma che eravamo disposte a comprare qualunque porcheria purché marchiata Adelphi. La somma di quelle che volevano proprio il romanzo rosa, e di noialtre che volevamo proprio spargere degli Adelphi per casa per darci un tono, causò un successo che non so se abbia avuto eguali nella storia dell’editoria chic). 

Mi sono persa negli incisi, mentre voi siete lì che spasimate per sapere: perché le ragazze degli anni 80 compravano Robin Norwood anche se non avevano intenzione di leggerla? Perché aveva un titolo di genio, che ci diceva come volevamo percepirci. Vittime, disamate, dalla parte del giusto (le tredicenni di allora erano taleqquali alle trentenni di ora). 

Ecco ciò che siamo: non quelle cui il bello della scuola ha preferito una più carina, ma donne che amano troppo. Era il corrispondente d’epoca del comprare la maglietta di Dior “We should all be feminists” (spendendo un cinquantesimo): una dichiarazione identitaria. 

Leggerlo era superfluo: cosa poteva dirci che non ci avesse già detto Marco Ferradini? (Era un’epoca lievemente meno scema: benché tredicenni, eravamo perfettamente in grado di leggere Teorema a sessi invertiti, non ci sembrava un manifesto maschilista ma un manifesto delle vittime di disamore, e ci era chiarissimo che quelle vittime eravamo noi, era ovvio, era incontrovertibile, aveva il nitore che aveva la superiorità estetica di John Taylor su Simon LeBon). 

Sono passati trentacinque anni, e Robin Norwood non ha mai smesso di vendere, ancora macina le sue brave duecento copie a settimana: c’è gente che pagherebbe per venderle trentacinque giorni dopo l’uscita, e io sono tra questa gente. Ieri, però, era prima (nella classifica di Amazon; a questo punto in genere c’è sempre qualcuno che obietta che la classifica di Amazon non sia rappresentativa, e le vendite di quel qualcuno curiosamente non somigliano mai a quelle di Camilleri). 

È certamente una coincidenza che la riscoperta del vittimismo vintage avvenga quando i siti titolano “Donne che amano troppo, Giulia De Lellis legge il libro: messaggio per Andrea Damante?”. 

E chi mai sono De Lellis e Damante, domanderanno i miei piccoli lettori, che pure sono informatissimi circa la storia d’amore di Martin Heidegger e Hannah Arendt. 

I due (Giulia e Andrea, no Martin e Hannah) vengono dall’unico prodotto culturale di successo di questo secolo italiano: Uomini e donne. (Questo è il punto in cui chi la sa lunghissima sulla classifica di Amazon dice di non avere il televisore, e io lo capisco: non ho l’asciugatrice, me ne pento spesso ma è una questione di principio). 

Dopo essersi fidanzata col tronista Damante ed esserne stata cornificata, l’anno scorso De Lellis ha pubblicato “Le corna stanno bene su tutto”. La prima posizione raggiunta ancor prima d’essere in vendita venne liquidata dai soliti saperlalunghisti come non rappresentativa. 

Poiché non la so abbastanza lunga, non dubito che non sia rappresentativa neanche quella di Norwood. Che ci vorrà mai a essere prima su Amazon, in un periodo in cui per essere primi nella classifica della saggistica degli autorevoli giornali di carta (la classifica che media tra Amazon e le vere librerie, quelle di quando esistevano i maniscalchi) bastano millesettecento copie. 

Lo scopriremo la settimana prossima: Giulia la crudele ha lanciato Robin la sempreverde di lunedì, e la classifica che copre i primi giorni di questa settimana è quella che esce la prossima (tempi novecenteschi). 

Teniamo tuttavia presente, quando pesiamo i divulgatori culturali, che undici mesi dopo l’uscita “Le corna stanno bene su tutto” – vittimismo senza copertura culturale, nonché irrilevante primo posto in prevendita su Amazon – ha venduto centoquarantamila copie. Lo scrittore vostro vicino d’ombrellone impegnerebbe gli organi interni dell’anziana madre.

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