«Quest’anno lavorerò meno al fumetto e più a come esporlo e presentarlo», spiega Emmanuel Guibert dalla Normandia, dove ogni anno trascorre l’estate. «Ho sempre esposto poco il mio lavoro. Il premio mi dà l’opportunità di farlo. Sto organizzando tre mostre: la prima, “Biographies dessinées”, sarà all’Académie des beaux-arts di Parigi dal 10 settembre al 18 ottobre. L’idea è quella di scriverne una sorta di sceneggiatura, in modo da renderle accessibili anche a un pubblico che non conosce il fumetto e il mio lavoro», racconta in perfetto italiano.
Il premio è il Grand Prix 2020, vinto a gennaio durante il Festival di Angoulême, la seconda più grande manifestazione dedicata al fumetto in Europa e la terza nel mondo. Guibert è uno dei maggiori fumettisti europei. Autore di due serie per bambini – “Sardina nello spazio” e “Ariol” – e di numerose opere documentaristiche pubblicate in Italia da Coconino: il ciclo di tre volumi dedicati ad Alan Ingram Cope, soldato americano sbarcato in Francia nella seconda guerra mondiale e dopo il conflitto trasferitosi a vivere lì, dove è diventato amico di Guibert; “Il fotografo”, ispirato ai racconti della guerra in Afghanistan nel 1986 dell’amico fotogiornalista Didier Lefèvre. Poi “Alain e i Rom”, reportage fotogiornalistico e grafico costruito con gli scatti del fotografo e amico Alain Keler nei campi rom di mezza Europa.
Sembra dare la stessa importanza alla produzione per bambini e a quella documentaristica, è davvero così?
Oltre a prendermi un sacco di tempo – ogni mese scrivo almeno 10-20 pagine di fumetti per bambini da ormai 20-25 anni – è la ragione per cui ho voluto fare questo mestiere. È stata la mia passione per i fumetti da bambino che mi ha guidato verso questa forma di espressione. Fin da piccolo disegnavo le avventure della mia famiglia e altre storie inventate. E leggevo di tutto: avevo una grande libertà perché a mio padre piacevano i fumetti, quindi mi abbonava ai giornali.
Faccio questo mestiere perché ho adorato Tintin e Spirou, Rene Goscinny e Andre Franquin, ma anche tanti disegnatori italiani come Jacovitti o Hugo Pratt, che era stranamente nei giornali francesi per bambini con le prime storie di Corto Maltese. Ho letto presto anche Dino Battaglia. In loro, che erano accanto al mio letto da bambino, ho scoperto la mia vera famiglia dell’infanzia, che ho percepito subito essere molto grande e varia.
Cita solo autori del continente, crede si possa parlare di “fumetto europeo”?
Faccio sempre un po’ fatica a parlare di tendenze, movimenti generali. Però dietro questa domanda c’è una certa verità. Di solito l’influenza geografica di una cosa mi sembra ovvia quando son lontano. Se vado negli Stati Uniti e in Giappone, che hanno la reputazione di essere grandi poli di questa forma di espressione, e incontro uno spagnolo o un portoghese, ovviamente tra di noi sentiamo una prossimità che ci distingue dal mondo dei manga o dei supereroi. Quando torniamo a casa le diversità si fanno più evidenti. Comunque non serve tanto tempo per intendersi e parlare più o meno la stessa lingua con un fumettista portoghese o italiano. Tra Francia e Italia, per esempio, c’è sempre stata una porosità importante: a volte alcuni fumettisti italiani scrivevano direttamente per il mercato francese.
Il suo amico Alan Ingram Cope, a cui ha dedicato tre libri, era arrivato in Europa come soldato e dopo la guerra decise di trasferirsi in Francia: “Ho capito che quello che volevo era l’Europa”, le ha raccontato, “ci sono degli aspetti positivi nella mentalità americana, ma le manca la profondità dell’esistenza”. Forse le peculiarità europee in generale sono più facili da osservare con un occhio esterno?
Alan lasciò gli Stati Uniti perché non era stato un bambino felice: aveva perso la madre a 11 anni. A parte il rapporto speciale che sentiva con la natura della sua California, era stato cresciuto nell’ambiente di competizione tipico di quel paese e lui non era fatto per quello. Aveva un lato di sognatore e un po’ di debolezza fisica che non ne facevano un buon americano canonico. Con il suo paese aveva un rapporto ambiguo e difficile, una nostalgia tremenda e allo steso tempo un’ostilità, come per ogni amore deluso. Poi ha cercato le ragioni che lo avevano spinto a lasciarlo, e tra queste ragioni disse quella frase. Mi diceva anche che sarebbe stato utile imparare la lezione dei nativi, che invece gli europei in un modo o nell’altro avevano sterminato.
Quali sono i luoghi d’Europa che conosce meglio e che l’hanno influenzata di più?
A me importano i paesi dove ho un amico o un’amica, in senso molto largo. Questo amico può anche essere uno scrittore vissuto dieci secoli fa. I paesi dove non conosco nessuno non esistono per me. Ovviamente sono pronto a scoprirli se incontro qualcuno. Ma abbiamo bisogno di ambasciatori dentro di noi. Sono stato pochissimo nei paesi del nord, per esempio, però Strindberg o Ibsen hanno per me un’importanza tale da darmi l’impressione di conoscerli.
Quali sono i suoi ambasciatori italiani?
Ho sposato un’italiana, quindi da quasi 25 anni vengo in Italia ogni anno: a poco a poco ho conosciuto sempre più luoghi e persone. Ricordo di una serata a Roma in cui volevo andare a vedere “Riso amaro” al centro sociale di Testaccio. Quando siamo arrivati ci hanno detto che il film non era arrivato, non si poteva proiettare. Mi sono trovato a Testaccio senza niente da fare, ho semplicemente aperto una porta che pensavo desse su un’altra stanza, invece mi sono trovato fuori: c’era un campo di terra e erba, due o tre tavoli vuoti con alcune sedie e alcune luci nella notte che illuminavano la scena. Mi sono detto “questa sera Fellini è qui”.
Fellini è morto da anni ma fa parte della mia memoria, e io, che sono un parigino che conosce male l’Italia di quell’epoca, arrivo e trovo un amico che mi aspetta dall’altro lato di una porta e mi dice “sei arrivato nel posto giusto, ti aspettavo qui”. La cultura è questo: l’accoglienza di scrittori, registi, pittori, che secolo dopo secolo hanno preparato il tuo terreno, il tuo arrivo da qualche parte, sono venuti come ambasciatori verso te e ti aspettano dietro una porta.
Quando ha deciso di voler farsi lei stesso ambasciatore con il fumetto?
Troppo presto per ricordarlo. Quando ho capito che quello che mi leggevano i miei genitori usciva da quell’oggetto – un libro –, e che aprirlo e guardare quelle immagini apriva a un altro universo tanto ricco, colorato, pieno di lezioni e divertimenti. Penso che in quel momento, che non posso datare, ho capito che fare quell’oggetto sarebbe stata la cosa più bella. E infatti già da bambino ho scritto dei libri, volevo riempire la mia biblioteca con i miei libri. Quando è venuto il momento di scegliere una via, la scelta era già stata fatta da anni.
Che effetto le ha fatto pubblicare il primo libro?
Delusione: quello che avevo sempre sognato – produrre l’oggetto più bello del mondo, un libro – non era affatto come pensavo. La quantità di lavoro che ci metti non coincide mai con l’oggetto che diventa. È qualcosa di piccolo, che tieni in una mano: pensare che anni di lavoro siano finiti lì è qualcosa di doloroso, soprattutto se ti rendi conto che quel libro è pieno di difetti, e se lo ricominciassi da capo sarebbe di sicuro migliore.
Perché allora continua a scrivere?
Poco a poco, soprattutto quando ho cominciato a lavorare con altri, a fare ritratti a fumetti, biografie, mi son reso conto che il libro era piuttosto l’occasione, la ragione per il quale andavo verso un altro chiedendogli di passare tempo assieme e sedersi, bere una birra, scrivere insieme, ascoltarsi. Il libro doveva essere solo una conseguenza naturale di quei momenti ma non il centro. Il centro rimaneva il nostro incontro, il poter passar tempo assieme.
Da quel momento il mio mestiere mi è sembrato un mezzo per arrivare a qualcosa di superiore, che è la relazione umana, la possibilità di passare con una persona tutto il tempo necessario a una vera conversazione, in cui si possano condividere le esperienze e le idee, ridere, piangere, provare a suonare assieme su tutte le note possibili. Il mestiere che permette di fare questo è un bel mestiere.
Nel 2014 ha cercato di raccontare l’Europa partecipando al progetto “L’Europa in una nuvoletta” del Goethe Institut e dell’Institut Français. Ne era uscita una doppia storia romana.
Volevo incontrare qualcuno che avesse avuto successo. Quindi chiesi a un amico che vive a Roma e ha un’agenzia grafica che dall’Italia si era espansa in tutto il mondo di poter passare una settimana con lui per provare a raccontare insieme cosa fosse la nostra Europa. Una notte mi lasciò accanto piazza Navona: tornando a casa avevo cominciato a disegnare per strada, come faccio sempre. La piazza si era totalmente svuotata e all’improvviso un uomo mi avvicinò e cominciò a parlarmi: mi sembrava un barbone. Diceva di chiamarsi Pasquino II. Mi ha parlato del Pasquino di Roma, mi ha portato a vedere la sua statua, dedicata alla protesta contro i potenti, attorno a cui tutt’oggi vengono appesi manifesti.
Pasquino II era disoccupato da più di vent’anni, scriveva poesie, pamphlet, saggi e la notte provava a venderli. Ho passato tre ore con lui a discutere. Pensavo di dedicare questo fumetto a un uomo che era riuscito a realizzarsi e il caso mi metteva in presenza di un uomo che era in una situazione completamente diversa e mi voleva parlare. Alla fine ho fatto due fumetti invece di uno, due ritratti. Entrambi giravano attorno alla questione dell’Europa: esiste o no? Se esiste, cos’è?
Alla fine l’Europa esisteva, esiste?
Per capirlo, in quel fumetto, ho tolto alcune cose che ci circondavano, per esempio la città di Roma, ho cercato di immaginare cosa sarebbe il mondo senza Roma. Non è difficile immaginarlo possibile: con una bombetta si può eliminare una città facilmente, è successo spesso, potrebbe succedere ancora. Oppure ho immaginato di parlare un’altra lingua rispetto alla nostra e non essere più in grado di comunicare con nessuno.
Teme insomma che l’Europa che vide il suo amico Alan, distrutta dalla guerra, non sia solo un ricordo?
Mi fanno molta paura questi cicli umani per cui tutti i dopoguerra sono diventati prima o poi degli anteguerra, come se ci fosse un movimento costante, quasi naturale, un ciclo scritto da sempre che è alimentato dalla nostra capacità di dimenticare la storia a ricadere sempre negli stessi errori. Alcuni mesi fa ho realizzato un’incisione con un’immagine di una foto scattata in una citta francese di Britannia quasi totalmente distrutta durante la seconda guerra mondiale e sotto ho scritto un testo che diceva: se potessi occuparmi dei manifesti delle prossime elezioni europee, affitterei tutti i posti dove si può mettere un manifesto e ci esporrei le foto delle nostre città nel 1944 e 1945, per vedere da dove usciamo, da dove veniamo.
La situazione dei nostri paesi alla fine della seconda guerra mondiale è quella della Siria di oggi. Gli uomini usciti da quella guerra hanno voluto legare i nostri paesi per evitare di ricadere negli stessi incubi e per farlo hanno usato il mercato, l’interdipendenza economica tra paesi. L’obiettivo principale, tutt’oggi, resta quello di conservare uno spazio di pace. Abbiamo una vita comoda come mai prima, ma la verità è che questa può venirci tolta in ogni momento dalla guerra, che è qualcosa che viene molto facilmente e velocemente quando gli uomini rifiutano di ascoltarsi, condividere spazi e risorse.
Recentemente ho letto “Napoli ’44” di Norman Lewis: l’autore era un soldato arrivato a Napoli quell’anno, che racconta quello che vide. Per esempio i padri della nobiltà napoletana che facevano il giro dei bordelli per proporre loro figlia: sarebbe stata una puttana ma era l’unico modo per mangiare qualcosa. Le donne ai lati della strada che provavano a vendere il loro corpo perché non avevano più niente.
Questi sono i nostri paesi, la generazione dei nostri nonni. Bisogna sapere questo e ripetere, mostrare, rimettere sempre in scena, trovare un modo per farlo. Il problema della ripetizione è che alla fine ci rende sordi, ma questa è la differenza principale tra una ripetizione meccanica e scema e una artistica. E con artistica intendo che cerchi una verità di sensazione, una verità di emozione, ritrovare per ogni generazione il discorso giusto per allontanare le persone dalla violenza e dalla brutalità.
Oltre alla memoria, si immagina soluzioni politiche?
Poiché la scena pubblica diventa sempre più violenta, dura, triviale, a volte le persone che forse sarebbero state quelle giuste per prendere buone decisioni si allontanano dalla politica. Spesso molto dipende da singoli individui che arrivano in un campo che sembra totalmente devastato, abbandonato al tribalismo, si alzano e dicono la parola della dignità: è un po’ come la fine de “Il grande dittatore”, quando Chaplin fa quel discorso che ogni volta fa venire le lacrime: è la parola della bellezza, della semplicità.
Come riportare le persone giuste in politica?
Il problema della nostra relazione con i politici è che quando sono morti diventano persone che riveriamo e rispettiamo, mentre da vivi li odiamo indistintamente. Ho l’impressione che l’adorazione e l’odio siano di troppo nella scena politica. Non abbiamo bisogno né di adorare un politico né di odiarlo. Un aviatore inglese della seconda guerra mondiale, uno di quelli della Royal Air Force che aveva ammazzato molti piloti tedeschi, a un giornalista che gli chiese se odiasse i tedeschi, rispose: “no, perché l’odio è un sentimento che stanca”.
C’è qualcosa di terribilmente stancante nel fatto di essere sempre contro un politico o una parte politica, mi sembra anche molto artificiale. A volte sembra persino che eleggiamo delle persone solo per odiarle: sarebbe difficile per chiunque camminare su una corda con persone attorno che vogliono solo farti cadere. Io sogno una relazione un po’ più semplice e razionale tra eletti ed elettori. Questo gioco permanente di critica e odio mi sembra uno dei problemi principali delle democrazie. Ovviamente nelle dittature questo problema non si pone neppure. Ma nelle nostre democrazia c’è un odio verso se stessi che si traduce nell’incapacità permanente di vedere che siamo tutti sulla stessa barca.