Shock therapyChe cosa resta di Solidarność, quarant’anni dopo la sua nascita

Il 17 settembre 1980, veniva fondato lo storico sindacato polacco guidato da un elettricista, Lech Wałęsa, che con quasi dieci milioni di iscritti coalizzò la maggioranza della popolazione contro il regime comunista. Da quell’esperienza nacque una frattura nel Paese che sopravvive ancora oggi

Afp

Esattamente quarant’anni fa, il 17 settembre 1980, veniva fondato lo storico sindacato anti-comunista polacco Solidarność. La sua evoluzione racconta molto della Polonia del 2020. Nato nei cantieri navali di Danzica, Solidarność (“solidarietà”, in polacco) si affermò, assieme alla cecoslovacca Charta ‘77 di Václav Havel, come il simbolo della resistenza anticomunista e antisovietica nell’Europa centro-orientale.

Sebbene già l’anno successivo alla sua fondazione venne bandito dal generale Wojciech Jaruzelski, il leader che impose la legge marziale nel paese (1981-1983) e governò fino al definitivo tramonto del comunismo polacco (1989), il movimento arrivò a contare quasi dieci milioni di iscritti – circa un quarto dell’intera popolazione polacca dell’epoca.

Agendo in semi-clandestinità per quasi un decennio, questa forza di ispirazione cattolica guidata da un elettricista, Lech Wałęsa (premio Nobel per la Pace nel 1983), riuscì a coalizzare la maggioranza della popolazione contro il regime. Dimostrando alla nomenklatura e agli osservatori internazionali che la Polonia era sì uno Stato comunista, ma non una nazione comunista.

La forza di questo sindacato originava dalla sua capacità di includere soggetti e istanze molto eterogenee in un unico fronte compattamente ostile al potere comunista e alle ingerenze dell’Unione sovietica. Accanto a molti intellettuali, come Bronisław Geremek e Tadeusz Mazowiecki, si trovavano operai, persone comuni, esponenti del clero cattolico.

Fino a tempi recenti, la transizione della Polonia dal comunismo alla democrazia liberale veniva generalmente considerata un caso da manuale.

Nella prima metà dell’89, i rappresentanti della dissidenza incarnata da Solidarność negoziarono con le autorità comuniste, resesi conto di esser giunte al capolinea, la conclusione dell’esperimento socialista nel formato delle cosiddette “tavole rotonde”.

Fu un passaggio di consegne assolutamente pacifico. Il 24 agosto dello stesso anno, meno di tre mesi prima del crollo del Muro di Berlino, Mazowiecki diventava il primo premier non comunista eletto in un paese appartenente al Patto di Varsavia. Poco più di un anno dopo, il 22 dicembre del 1990 Wałęsa veniva eletto presidente della Polonia. Il 25 dicembre del 1991 l’Unione sovietica cessava di esistere.

Gli anni ‘90, specie la prima metà, furono però tremendi per la Polonia neo-indipendente. La shock therapy varata dal ministro delle Finanze Leszek Balcerowicz fece uscire violentemente il paese mitteleuropeo da quarant’anni di economia centralizzata e lo catapultò nel sistema internazionale di libero mercato, ma causò anche la proletarizzazione di larghe fasce del ceto medio, che si trovarono di colpo senza lavoro, senza tutele e senza qualifiche spendibili in un impianto produttivo radicalmente stravolto. Il sentimento di spoliazione e depauperamento provato da molti polacchi negli anni subito successivi al collasso del regime venne accentuato dalla comparsa di un’oligarchia economico-finanziaria post-comunista. Molti dei dirigenti a capo delle imprese pubbliche durante il comunismo ebbero gioco facile a rilevare le medesime aziende a prezzi irrisori. Il processo di privatizzazione, mirato a smantellare l’architettura del comunismo, favorì proprio parecchi degli ex-fedelissimi alla falce e martello. La Polonia complessivamente si arricchiva, ma al prezzo di un incremento delle diseguaglianze.

La costruzione di una particolare memoria collettiva di quegli anni controversi è un caposaldo della strategia di costruzione del consenso dell’attuale classe dirigente: i populisti ultra-conservatori del Pis (acronimo per Prawo i Sprawiedliwość, “Diritto e Giustizia” in polacco), oggi saldamente al potere in Polonia, dove controllano governo e presidenza. Sia il Pis che Po (Platforma Obywatelska, “Piattaforma civica”), la principale forza di opposizione, sono due gemmazioni di Solidarność e gran parte delle loro classi dirigenti si sono formate nei ranghi di quel sindacato o provengono da ambienti a esso molto prossimi.

Trent’anni dopo il trionfo sul comunismo, le due formazioni rappresentano però due società molto diverse, come emerso anche durante le ultime elezioni presidenziali, che hanno visto l’uscente Andrzej Duda (Pis) battere di misura Rafał Trzaskowski (Po), sindaco della capitale Varsavia. La prima principalmente provinciale, conservatrice, tradizionalista, nazionalista e labilmente reazionaria. La seconda urbana, progressista, europeista, liberale e vagamente cosmopolita.

Alla base delle loro differenze, due interpretazioni inconciliabili degli anni chiave della transizione, come riconosciuto anche dall’ex premier polacco Donald Tusk l’anno scorso, durante le celebrazioni per la fine della Guerra fredda.

Sebbene sulla carta sia un semplice senatore, il capo indiscusso del Pis è Jarosław Kaczyński, che assieme al fratello gemello ed ex presidente Lech (deceduto in un incidente aereo nel 2010) partecipò da comprimario alle attività di Solidarność al fianco di Wałęsa, come testimoniano alcune foto invecchiate male.

Nella visione di Kaczyński e del suo elettorato, la transizione incruenta con cui la Polonia si scrollò di dosso il comunismo non fu una raffinata azione diplomatica, bensì un tradimento della nazione. La classe dirigente di Solidarność, simpatetica verso le sorti della moribonda nomenklatura comunista o addirittura in combutta con essa, offrì un salvacondotto alle èlite del regime, permettendo non solo che la facessero franca nonostante i crimini commessi durante i quattro decenni precedenti, ma addirittura che continuassero a ricoprire cariche pubbliche o che si ritagliassero un posto al sole nella nuova Polonia a vocazione capitalista.

Gli ultra-conservatori biasimano in toto la posizione morbida che Wałęsa e gli altri esponenti del sindacato tennero nei confronti di quel conglomerato di funzionari, giudici, forze dell’ordine che per anni operò per reprimere sistematicamente ogni forma di dissenso. Una posizione esemplificata in quella “politica della linea spessa” che Mazowiecki evocò nel suo primo discorso da premier al Sejm, la Camera bassa: l’unico modo per ripartire era incidere una linea netta tra il passato comunista e il presente democratico. Condonare, rimuovere e perdonare le azioni nefaste e criminose compiute dai funzionari comunisti nel solco della riconciliazione nazionale.

Negli anni la campagna politico-memoriale del Pis si è radicalizzata fino a convergere addirittura contro l’eroe nazionale di quella transizione negoziata: Lech Wałęsa, screditato per una sua presunta collaborazione come delatore con i servizi segreti del regime, che avrebbe prestato negli anni ‘70 sotto lo pseudonimo di “agente Bolek”.

L’ultimo scontro a inizio mese, quando il ministro per l’Educazione polacco Dariusz Piontkowski ha suggerito che le scuole dovrebbero menzionare la cooperazione – seppur mai provata – di Wałęsa con l’intelligence comunista.

Se Wałęsa era una spia e il resto della dirigenza di Solidarność collusa o quantomeno troppo poco ostile verso i post-comunisti, la transizione non può che dirsi incompleta: lo scopo prima di qualunque governo veramente indipendente deve allora essere quello di raddrizzare questa storture e instaurare una democrazia pienamente sovrana. In questo spirito, il Pis ha condotto un attacco a tutto campo contro le istituzioni consolidatesi con la rinascita della democrazia polacca, concentrandosi specialmente sul settore giudiziario, nella convinzione che vi si annidino ancora infidi funzionari dell’ancien régime.

Il segmento progressista della società polacca, radunato attorno a Po, bolla le ricostruzioni avanzata dai nazionalisti come propaganda atta a coprire il tentativo di smantellamento della giovane democrazia liberale polacca, sull’esempio dell’Ungheria di Viktor Orbán. Wałęsa stesso si è speso in prima persona contro il governo del Pis, definendolo una dittatura e arrivando a invocare l’espulsione della Polonia dall’Unione europea.

Sebbene ampiamente ridimensionata nei numeri – oggi conta qualche migliaio di iscritti – e dunque meno influente, Solidarność esiste ancora. In quel conflitto di memoria che oggi frattura così drasticamente la società polacca, sostiene l’attuale governo, scegliendo di non solidarizzare con quel baffuto elettricista per che per un decennio ne rappresentò l’immagine pubblica sulla scena mondiale.