The Wrong PlaceIl caso Andrea Rocchelli è il sintomo di una giustizia che si accontenta di spiegazioni facili

A pochi giorni dall’avvio del processo d‘appello per la morte del fotogiornalista italiano in Donbass nel 2014, un documentario ripercorre i punti oscuri delle indagini, raccogliendo nuovi elementi e sollevando più di una domanda sulla sentenza

POOL / AFP

Nell’omicidio di Andrea Rocchelli c’è tutto di sbagliato. Il fatto di essere morto a trent’anni, lontano da casa, nel pieno della guerra del Donbass, in mezzo al fuoco incrociato dei militari ucraini e dei separatisti filorussi, mentre cercava di svolgere il suo lavoro di fotogiornalista. Ma anche una giustizia che ha fatto il suo corso in maniera carente, piena di buchi e di domande irrisolte, cercando di trovare una verità che, a distanza di sei anni, appare troppo semplicistica e frettolosa.

È quanto racconta un gruppo internazionale di giornalisti, gli italiani Cristiano Tinazzi, Danilo Elia e Ruben Lagattolla insieme all’ucraina Olga Tokariuk, che per un anno si sono dedicati a mettere insieme i pezzi di quanto accaduto al giovane reporter a Slov”jans’k, nell’est dell’Ucraina, in quel 24 maggio 2014. Il risultato è un film-documentario intitolato “The Wrong Place”, in uscita questo autunno. Un lavoro di inchiesta svolto nei luoghi dove stava operando il giornalista, quando è rimasto freddato dai colpi di mortaio insieme al collega Andrej Mironov, attivista per i diritti umani ed ex dissidente sovietico.

Per quell’omicidio la giustizia italiana ha trovato un colpevole: Vitaly Markiv, un soldato con doppio passaporto italo-ucraino e apparenti simpatie neonaziste. Sarebbe stato lui ad individuare e a dare l’ordine di sparare sui giornalisti. Ma diversi punti nella sentenza rimangono oscuri: la distanza fra il soldato e i reporter, le armi utilizzate, le analisi balistiche fatte solo in video o in foto, il movente.

Attraverso un accurato lavoro tecnico, con il supporto di militari ed esperti, corredato dalle immagini originali riprese da Rocchelli e il collega e da alcune testimonianze chiave, ignorate però dagli inquirenti, i giornalisti hanno dunque illustrato nel documentario tutti i punti rimasti irrisolti, svolgendo il lavoro che gli inquirenti avevano mancato di svolgere. «Ci hanno accusato di essere anti italiani, di essere i detrattori di Rocchelli», dice Danilo Elia in occasione della conferenza stampa per presentare il documentario, ospitata a Palazzo Pirelli dal gruppo Più Europa-Radicali. «Ma la sfilza di no a farsi intervistare che abbiamo ricevuto ci dice qualcosa ed è ciò che ci ha spinto ad andare avanti: la notizia è quel qualcosa che qualcuno non vuole venga pubblicata».

Il soldato Markiv è stato condannato in primo grado a 24 anni di carcere. «I giornali italiani avevano subito titolato “Ecco il killer di Rocchelli”, titoli che parlavano di “mattanza”in prima pagina», spiega ancora Elia. Nessuno ha avuto interesse ad approfondire. Così, oltre che una tragedia e una storia di malagiustizia, quello di Rocchelli diventa anche un caso esemplare dei risvolti più oscuri e tristi del fare giornalismo.

«Il numero di giornalisti uccisi in guerra è cresciuto tantissimo negli ultimi anni», ha spiegato Anna Zafesova, giornalista russa, esperta di geopolitica e collaboratrice de Linkiesta. «Questo sia perché le guerre odierne sono sempre più disintermediate, dove sempre meno ci sono due fazioni e sempre più è un “tutti contro tutti”, ma anche perché lo stesso giornalismo è disintermediato: i giornali non investono più per avere reporter sul campo, ma ottengono foto e materiali video da freelance che il più delle volte si recano in quei luoghi a loro spese, senza una redazione né coperture alle spalle. E così i partigiani dell’informazione diventano carne da macello: sono portati a esporsi sempre più per cercare di guadagnare meglio, ma finché sono vivi vengono pagati cifre ridicole».

Anche Rocchelli era partito per il Donbass senza un assignment, da freelance puntava a vendere il proprio lavoro a posteriori. «A differenza di altre, la guerra lì è molto più accessibile ed economica, la zona del conflitto la si raggiunge con un aereo e un treno», spiega Elia. Spesso ai reporter mancano persino banali giubbotti antiproiettile, oltre che assicurazioni e molto altro. Sicuramente il fotogiornalista si era esposto in un punto considerato molto pericoloso, dove già diversi altri giornalisti si erano trovati in pericolo nelle settimane precedenti.

Lungi dal voler prendere le parti di chicchessia, i giornalisti hanno documentato tutti questi aspetti, anche attraverso testimonianze inedite. Nonostante il quadro resti incompleto, rimangono il fatto che un giornalista è stato ucciso e che una persona è stata condannata sulla base di prove unicamente indiziarie da una giustizia che sembra aver avuto troppa fretta di trovare un colpevole.

«Io ritengo che questo sia un processo sbagliato, perché è stato anche un processo politico. Per stabilire la colpevolezza di Vitaly Markiv si è presa in considerazione soltanto la tesi ucraina e non quella dei separatisti filorussi. I giudici sono stati influenzati dalla disinformazione italiana e dalla propaganda russa. Il fatto che mai nessuno si sia recato sul posto per ricostruire la vicenda la dice lunga sulle indagini. È un’ingiustizia», ha commentato Silvja Manzi, membro della direzione di Radicali italiani.

Il 29 settembre il compito della corte d’Appello di Milano sarà di stabilire se le prove raccolte dalla procura di Pavia siano sufficienti a giustificare la condanna. «Io spero che chi critica il documentario e la famiglia possano vedere gli elementi in più che abbiamo trovato, e che potremo parlarci», ha concluso Tinazzi. «Ci sono tantissime testimonianze che non sono state portate in aula. Sono pezzi di un puzzle che forse non ricostruiremo mai a pieno».

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