Tutta l’Unione europea sta seguendo molto da vicino le proteste che da settimane si susseguono in Bielorussia, scaturite dal risultato elettorale molto probabilmente fraudolento che ha nuovamente incoronato il presidente Aleksandr Lukashenko lo scorso 9 agosto.
Un paese dell’Unione europea osserva però le vicende bielorusse con particolare attenzione: la Polonia, il primo Stato a invocare frenticamente la convocazione di un vertice Ue straordinario da dedicare alla crisi in corso nel paese vicino. Vertice effettivamente tenutosi lo scorso 14 agosto, quando il Consiglio Affari Esteri dell’Ue ha deliberato il varo di nuove sanzioni contro alcuni esponenti del regime bielorusso e ribadito di non riconoscere il risultato ufficiale della tornata, che assegnerebbe a Lukashenko – in carica dal 1994 – oltre l’80% dei suffragi.
L’attenzione che il paese centro-europeo riserva al vicino orientale non si spiega solo con il timore di conseguenze destabilizzanti, come l’esodo di profughi bielorussi oltreconfine nel caso in cui la repressione attuata dal regime raggiungesse livelli insostenibili.
Fin dall’indipendenza Varsavia guarda ai paesi che le stanno a est – Bielorussia, Ucraina, ma anche il Caucaso meridionale – come a un’area naturale per la propria influenza, da coltivare massimizzando le possibilità offerte dall’appartenenza all’Ue, ponendosi spesso e volentieri a capo di una cordata informale cui partecipano anche i tre Stati baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia).
Con l’avvento al potere dei populisti del Pis nel 2015, primazia confermata anche recentemente con la rielezione del presidente uscente Andrzej Duda, la politica estera di Varsavia ha subito un’evoluzione in senso nazionalista.
L’attuale dirigenza polacca non solo ha corroborato massicciamente il vincolo vitale tra Varsavia e Washington, ma sta cercando di farne il caposaldo di una ritrovata centralità nel quadrante centro/est-europeo del continente, smarcandosi da quella Germania con cui invece i propri predecessori avevano invece individuato un efficace status quo.
Centralità ritrovata, perché spesso l’opinione pubblica europea dimentica – o ignora – che la Polonia è una nobile decaduta, abituata fino a tempi recenti fa ad avere dimensioni, prestigio e rango molto superiori a quanto possa esibire al momento: il Commonwealth polacco-lituano (1569-1795) inglobava anche le intere Galizia e Podolia, possedimenti poi ceduti all’Impero asburgico (oggi in Ucraina), oltre a porzioni di territori attualmente in Russia, Bielorussia, Lettonia ed Estonia.
Gli odierni sogni di grandeur polacchi attingono da questo periodo storico, cui seguirono due secoli di tragedie nazionali – rivolte per l’indipendenza stroncate, occupazioni e spartizioni da parte di più potenze contemporaneamente, invasione tedesca all’inizio della Seconda guerra mondiale, Olocausto, mezzo secolo di socialismo imposto obtorto collo.
Da questa storia così atroce deriva l’imperativo cardine della geopolitica polacca, l’alfa di qualunque azione di politica estera: il contrasto alla Russia, l’unico tra gli acerrimi nemici dei polacchi rimasto ancora molto assertivo, come reiterato nel 2014 con l’annessione della Crimea e l’invasione del Donbass ucraino.
L’appartenenza alla Nato e la presenza di militari nordamericani sul proprio territorio, recentemente rimpinguata dal Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, sono le due assicurazioni sulla vita più convenienti agli occhi della società polacca.
Contenere e contrastare la Russia significa anche evitarne l’infiltrazione in altri Stati, in primis quelli limitrofi, ma non soltanto.
Nel 2008, subito dopo l’invasione russa della Georgia, l’allora presidente polacco Lech Kaczyński guidò una delegazione con anche i rappresentanti dei tre baltici e dell’Ucraina a Tbilisi, dove pronunciò un memorabile discorso antirusso davanti a una piazza gremita e pavesata di simboli occidentali.
L’anno seguente Varsavia fu tra i più attivi promotori dello strumento principale con cui oggi l’Ue si relaziona alla regione post-sovietica (Bielorussia, Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaigian): il Partenariato orientale. Dispositivo funzionale per polacchi, baltici e scandinavi a controbilanciare il prevedibile spostamento del baricentro geopolitico del blocco comunitario verso sud (Maghreb e Medio Oriente) tramite il Partenariato meridionale, attratto da questioni più urgenti – controllo dei flussi migratori, importazione di energia, relazione con la Turchia – rispetto a quelle allora riscontrabili sul versante orientale.
Fuori dal contesto prettamente Ue, le due parole chiavi che compendiano la strategia polacca verso il proprio est sono: energia e Trimarium.
Qualunque ambizione energetica, per la Polonia, incrocia il Mar Baltico.
Proprio quest’anno ricorre il centesimo anniversario del “Matrimonio con il Baltico”, la cerimonia con cui nel 1920 il generale Józef Haller celebrava il recupero dell’accesso al mare da parte della prima Polonia moderna indipendente, nata sulla ceneri dei tre imperi polverizzati dalla Grande guerra – Impero austro-ungarico, Germania guglielmina, Russia zarista.
Lo scorso maggio è stata assegnata la prima tranche dei lavori per edificare un’opera pubblica chiave: la compagnia italiana Saipem si è aggiudicata la commessa (280 milioni di euro) per la costruzione di un gasdotto tra Faxe (Danimarca) e Niechorze (Polonia) lungo circa 275 km. L’infrastruttura, dal costo stimato di 1.6 miliardi di euro (215 pagati dall’Ue), è uno dei cinque tratti che andranno a comporre il Baltic pipeline project (Bpp), un gasdotto che connetterà Polonia e Norvegia via Danimarca. L’obiettivo, per i polacchi, è potersi permettere di non rinnovare gli accordi sul gas con Gazprom, l’azienda energetica russa con cui Mosca esercita la propria pressione sull’Ue. Già a metà maggio ne è scaduto uno, quello relativo al passaggio del combustibile tramite il gasdotto Yamal-Europe; un secondo è in scadenza nel 2022.
Con queste mosse Varsavia mira anche a divenire un hub regionale dell’energia. Se il primo scopo è affrancare se stessa dalla dipendenza dalle importazioni dalla Russia, il secondo è quello di sfruttare questa (parziale) autonomia energetica per approvvigionare gli altri Stati della regione, acquisendo fette di influenza notevoli. Per esempio, una Bielorussia guidata da forze meno necessariamente filorusse di Lukashenko, e almeno labilmente filoeuropeiste, potrebbe verosimilmente trasformarsi in un acquirente tanto interessato quanto facile da persuadere.
Il Trimarium è un piano politico-militare elaborato dalla Polonia assieme soprattutto alla Croazia. Detta in soldoni, l’idea base è quella di riunire tutti gli Stati Ue post-comunisti in vallo antirusso, potenziando le infrastrutture e le connessioni infra-regionali. Qualora tale consorzio si istituzionalizzasse, coinvolgere (anche informalmente) Ucraina, un’eventuale Bielorussia neutrale, cioè non più dipendente dal supporto di Mosca, e in prospettiva anche la Moldova, sarebbe molto più facile.
Il progetto Trimarium, a oggi ancora lungi dall’esser decollato, sarebbe quanto di più ambizioso la Casa Bianca potrebbe esigere dai suoi partner in loco. Una prova di fedeltà assoluta con cui la Polonia, che di questa unione inter-statale sarebbe il peso massimo (per popolazioni, risorse, interesse), ambirebbe a proiettarsi come colonna portante dell’atlantismo in regione.
Messe in prospettiva, simili mosse tradiscono anche un timore che, a fronte del crescente egocentrismo dell’America trumpiana e dell’ascesa tecnologica della Cina, tormenta i decisori polacchi: il ridimensionamento della presenza (e forse anche della potenza) militare Usa nel mondo.
Nel suo piccolo, la Polonia, che su questa presenza in senso deterrente (antirusso) ha scommesso la vita, farà di tutto per scongiurare l’arrivo di una simile distopia: il Trimarium è proprio uno dei modi con cui Varsavia tenta di esorcizzare questa inconfessabile fobia.