Questioni di pancia La lezione sull’Europa che ci lascia Philippe Daverio

Lo storico dell’arte recentemente scomparso invita a riflettere sulle radici storiche degli alimenti. Quale identità possiamo rivendicare se il mondo arabo ci regala la grappa e i fagioli, la birra non è tedesca ma arriva dall’Egitto, e il granoturco li porta Colombo dalle Americhe? Per fortuna a unirci c’è il vino, la nostra unica vera matrice comune

Per dirla con Philippe Daverio, l’Unione europea, prima d’essere un’espressione politica è una questione di pancia che si capisce meglio sorseggiando un buon calice. Nel suo ultimo lavoro edito da Rizzoli, Quattro conversazioni sull’Europa, lo storico dell’arte recentemente scomparso – europeo per nascita e per vocazione, cresciuto al crocevia tra Italia, Francia e Germania – immagina «un’utile Costituzione delle Regioni d’Europa» nel cui incipit sia scritto: «L’Europa è la penisola occidentale del continente asiatico fondata sul vino», unica parola che si ritrova con la stessa radice linguistica in tutte le lingue del Vecchio Continente. 

Il vino è intimamente legato alla cristianità, si diffonde in parallelo con l’Impero romano e subisce gli effetti del suo declino. A riportarlo in auge dopo la fine dell’impero è un monaco irlandese, San Colombano che è anche il primo a usare la parola Europa in una corrispondenza scritta con papa Gregorio Magno. Il religioso attraversa le Alpi per combattere l’arianesimo in Lombardia e istruisce i contadini della zona, Bobbio in val Trebbia e l’attuale San Colombano al Lambro, sulla coltivazione della vite. Il lavoro dà i suoi frutti tanto che intorno all’anno Mille gli archivi registrano produzioni pregiate, le stesse che danno origine al Colombano rosso, unico doc prodotto ancora oggi all’interno del comune di Milano. 

E siccome senza vino non si celebra messa, i monasteri di tutta Europa sono attivi nel piantare vitigni in grado di resistere anche a temperature piuttosto rigide. Nasce la moderna vinificazione che produce un vino a gradazione alcolica più bassa rispetto al passato; cambiano anche i contenitori per conservarlo, non più le anfore del mondo classico ma barrique, da costruire curvando ad arte assi di legno. Grazie a questa tecnica i maestri d’ascia riusciranno a progredire nella nautica trasformando la galea romana affilata e dai fianchi diritti nel galeone panciuto, capace di affrontare i potenti flutti dell’Atlantico. Senza le botti, forse, non ci sarebbero state le caravelle che qualche secolo dopo scopriranno le Americhe. 

L’onda alcolica attraversa la storia e non arretra neanche davanti alle guerre, piuttosto si adegua ai nuovi assetti. Quando all’inizio dell’Ottocento gli eserciti di Francia e Inghilterra si fronteggiano il commercio di vino verso la Gran Bretagna si interrompe. È la fortuna del Marsala che dalla Sicilia attraversa con successo la Manica. Grazie alla nuova rotta, di colpo gli inglesi scoprono anche le arance e il tonno, che viene messo sott’olio per poterlo conservare meglio. Visto con gli occhi dello storico nessun cibo può dirsi a chilometro zero e forse non è un male perché dall’intreccio delle rotte commerciali nascono alchimie che dalla tavola si trasferiscono all’architettura, all’arte. Per evitare che le navi viaggino vuote dall’Inghilterra alla Sicilia inizia il commercio della ghisa fusa che ancor oggi ammiriamo negli splendidi balconi barocchi sparsi per l’isola. 

Daverio conduce tra rilevanti fenomeni e incisive scoperte a riflettere sul concetto di tradizione, di radici. Che cos’è davvero nostro? Il mondo arabo ci regala la grappa, dall’America arrivano i fagioli e il granoturco – che di turco non ha nulla a parte il nome – la birra non è tedesca ma arriva dall’Egitto. 

Il nostro essere europei nasce da questo intreccio, è un’identità liquida, dove i confini sono soltanto ideologici e l’Italia, anche se non ha perfetta coscienza, è snodo cruciale. Caterina de’ Medici, quando sposa Enrico II di Francia, porta a Parigi la forchetta. I fiorentini hanno imparato a utilizzarla dall’Europa orientale, da Costantinopoli. Caterina la introduce alla corte di Francia insieme con un’altra cosa curiosa, un intruglio raffreddato a base di acqua, zuccheri e frutta: il gelato. E che dire del Tokaj, arrivato in Ungheria nel Seicento come dote della contessa Aurora Formentini andata in sposa al conte Adam Batthyany? Se gli ungheresi fossero stati sovranisti non lo avrebbero mai bevuto. Scrive Daverio: «A questo punto dobbiamo domandarci: sarebbe comunque esistita l’Europa senza l’area di nascita della birra e del vino? Gli archeologi sostengono che la prima coltivazione della vigna sia avvenuta più o meno attorno al monte Ararat, dove Noè ha fermato la barca al termine del Diluvio universale, e da lì si sia diffusa attraverso il Mediterraneo fino a noi. L’Europa deve molto a questo meccanismo mediterraneo di contaminazione che l’ha portata a essere ciò che è oggi». 

E ancora, cosa sarebbe stato il congresso di Vienna senza i banchetti di Marie Antonin Carême? Scoperto da Talleyrand, viene “prestato” a Napoleone per le occasioni ufficiali. Grazie alle sue creazioni Talleyrand seduce i diplomatici delle potenze ex nemiche e facendo leva sulle loro debolezze – chi non è indifeso quando si siede a tavola? – manovra i negoziati con tanta abilità da far passare in secondo piano che la Francia dello sconfitto Napoleone sieda al tavolo della pace tra le grandi potenze. 

A volte è la storia a infilarsi nelle pieghe delle ricette e a cambiarle. Lo racconta il volume “Quando un piatto fa storia. L’arte culinaria in 240 piatti d’autore” (Ippocampo edizioni, 448 pag., €39,90) in uscita il prossimo 23 settembre. L’insalata russa, ad esempio: il cuoco francese Lucien Olivier la servì per la prima volta nell’aristocratico ristorante Hermitage di Mosca, senza lesinare sugli ingredienti che comprendevano, tra gli altri caviale, pernice, fagiano, aragosta, cervo, gamberi d’acqua dolce. Un piatto ovviamente alla portata dei clienti più ricchi. Con profondo orrore dello chef, i commensali mischiarono tutto nei loro piatti e a Olivier non rimase che riconfigurare la sua invenzione come un’insalata, condita da una salsa provenzale che volle tenere segreta anche ai suoi aiutanti.

Con la caduta dell’aristocrazia e l’avvento del comunismo, un piatto del genere sembrò fuori luogo. Nel 1930, al Moskva Hotel, il compagno Ivanov, ex apprendista all’Hermitage, presentò una versione decisamente più proletaria con patate e piselli in scatola, il pollo al posto della pernice, le carote in sostituzione dei gamberi e come legante maionese industriale, così il piatto diventò un’economica fonte di calorie e proteine per il popolo. 

A volte la fortuna di un piatto si deve a un influencer ante litteram; l’invenzione della caprese appartiene a un cuoco del Grand Hotel Quisisana di Capri che affettò i turgidi pomodori locali e li dispose sul piatto insieme a verdi ciuffi di basilico in onore del poeta e scrittore futurista Filippo Tommaso Marinetti ma a renderla celebre in tutto il mondo fu Faruk d’Egitto. Il sovrano chiese uno spuntino in albergo mentre la cucina era chiusa, gli fu servito un sandwich di Caprese che, in seguito il re decantò nel jet-set internazionale, facendo la fortuna della ricetta. 

Il volume, a cura di un pool di esperti internazionali – Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nourse, Andrea Petrini, Diego Salazar e Richard Vines – è una miniera di aneddoti che faranno felici i golosi, gli appassionati di cibo e di cultura ma, soprattutto, è un rocambolesco intrigo di storia e geografia, saggi di maestria ed errori che hanno dato vita a piatti geniali come la celeberrima Tarte Tatin frutto della sbadataggine di Stephanie Tatin o il Tortino al cioccolato dal cuore morbido di Michel Bras inventato nel 1981 ed entrato nella carta dei dessert di tutta la Francia e del mondo, fino a sconfinare in versioni commerciali e pop. 

Ma il dolce forse più europeo di tutti è il babà. Si narra che Stanislao I, re di Polonia in esilio, avesse una passione per il kouglof, tradizionale dolce alsaziano costellato d’uvetta, ma che lo trovasse troppo asciutto. Fu così che lo inzuppò nel rum e lo chiamò come Alì Babà, il suo personaggio preferito delle Mille e una notte. (Daverio aggiungerebbe che il libro è ricco di riferimenti all’alcool, testimonianza che il mondo arabo in origine non fosse per nulla astemio, ma non divaghiamo).

I francesi se ne appropriano e nell’Ottocento Diderot e Zola lo celebrano in lievi pagine facendolo diventare il dolce del momento anche perché contemporaneamente il ribasso del prezzo dello zucchero lo rende accessibile alle classi lavoratrici. Introdotto dai raffinati cuochi francesi al seguito dell’esercito napoleonico, il babà giunge a Napoli, dove diventa l’incontrastato re della pasticceria partenopea, entrando di prepotenza nel linguaggio locale: si nu babbà è il più bel complimento che un napoletano possa farvi. 

Di contaminazione in contaminazione si arriva ai rigatoni cacio e pepe alla romana cotti con la tecnica en vessie, molto diffusa oltralpe in uno spettacolare incontro Italia-Francia messo in scena dal cuoco Riccardo Camanini. Il cameriere arriva al tavolo con un globo incredibilmente rigonfio. Lo agita ostentatamente, poi lo fora svelando all’interno della vescica di maiale fumanti rigatoni al dente, rivestiti di burro, cacio e pepe nero: una doppia porzione, perché lo spettacolo va condiviso.

Il sapore è eccezionale perché gli elementi familiari del formaggio e del pepe sono pervasi dagli aromi concentrati nella vescica. I rigatoni assumono un gusto simile a quello della pasta alla gricia, preparata di solito con guanciale e cacio, ma con qualcosa di nuovo perché in questo caso la pasta cuoce al vapore. Lo chef Camanini, allievo del leggendario Gualtiero Marchesi, aveva però scoperto in un libro del 1500 che questa tecnica di cottura era già in voga tra gli antichi romani. E siccome la vendetta è un piatto che si serve freddo, venti secoli più tardi ecco il perfetto sgambetto culinario ai cugini francesi. Daverio sorriderebbe.

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