Come ricomincerà il mondoDopo la pandemia ci affideremo alle persone in modo diverso

Lo spiegano Chiara Giaccardi e Mauro Magatti in “Nella fine è l’inizio” (Il Mulino): questa crisi ha messo a nudo le fragilità di un modello di vita e pensiero già messo alla prova da shock economici e politici. Bisogna riconoscere i limiti, proiettarsi in avanti e ricostruire (pur in assenza di macerie). Anche con nuove autorità

ROSLAN RAHMAN / AFP

In condizioni normali, noi viviamo immersi in contesti che si reggono sulla fiducia, relazionale e istituzionale. È la nostra esperienza che ce lo dice.

Sulla base della conoscenza personale che abbiamo degli altri, ma soprattutto sulla base delle regole che strutturano un determinato ambito di vita, noi possiamo fidarci di ciò che avviene e delle persone che incontriamo. Che il postino suoni il campanello per portarci la posta, che il vigile ci faccia la multa perché abbiamo commesso un’infrazione del codice stradale, che il medico curi la nostra malattia… non dobbiamo ogni volta accertarci che sia davvero così!

In realtà, proprio il subdolo ritorno dell’incertezza nella dinamica sociale del nostro tempo ci dice che le cose sono un po’ diverse. Per quanto ci si sforzi di stabilizzare e confermare la fiducia, c’è sempre un «resto», come lo chiama Simmel, che non è incluso nell’ordine dato della società. Qualcosa che rimane, e che tendiamo a rimuovere perché ci costringe a domande scomode. E che soprattutto è negato dalle élites, che hanno più da perdere, e proprio per questo fanno di solito più fatica a capire o anche solo a desiderare il nuovo (se non ridotto a mera «innovazione» per tentare di rafforzare il sistema).

Il problema è che, nelle condizioni straordinarie come quelle in cui ci troviamo, la fiducia routinaria che fonda l’ordine sociale è ampiamente danneggiata: il colpo è stato troppo forte per poter pensare semplicemente di «rimettere le cose a posto».

La partita ha bisogno di essere giocata in avanti. Gli schemi conosciuti non valgono più e occorre tentare una strada diversa.

Quella di cui abbiamo oggi bisogno è una fiducia che inclini di più verso la fede, come capacità di fare passi che non sono già assicurati (pur senza promuovere generici azzardi o fatalismi).

Per questo può essere preferibile usare il termine «affidamento», che a differenza di «fiducia», che è statico, dà il senso di un processo. O spingerci fino a «protensione», che indica la capacità positiva di proiettarsi in avanti, di anticipare ciò che non è stato ancora percepito; e che diventa, poi, capacità di trascendere individualmente e collettivamente (riconoscendoli piuttosto che negandoli) i limiti di noi stessi e dei mondi sociali che abbiamo costruito, diventati evidenti nella fase dell’emergenza.

La psicologia ci dice che la capacità di affidarsi si fonda su un’esperienza di «attaccamento». È cioè nell’esperienza di non sentirsi abbandonati anche nella situazione più difficile che può nascere quella fiducia senza la quale si finisce per rimanere annichiliti.

Se proviamo a traslare sul piano sociale questo ordine di considerazioni, ci sembrano almeno tre le condizioni che possono concorrere a rendere possibile questa dinamica dell’affidamento-sbilanciamento nella fase post-Covid.

La prima ha a che fare con il senso, la direzione, la prospettiva. Occorre insistere sul fatto che i tre shock globali (settembre 2001, 2008 e Covid-19) hanno mandato in pezzi la narrazione che è andata sotto il titolo di globalizzazione. E che unificava in modo potente l’espansione dell’economia mondiale con la crescita delle possibilità di vita individuale. Ora questa narrazione, già in crisi, è crollata.

Occorre un altro discorso in grado di dare senso al tempo che ci aspetta, e di armonizzare il piano macro dello sviluppo economico col piano micro dell’esperienza soggettiva.

Le vere questioni del dopo pandemia non sono tanto quelle del quando o del cosa, ma quelle del come e del perché. Senza una domanda di visione integrale e di vie nuove per realizzarla diventerà molto difficile sfuggire ai contraccolpi del trauma.

Il problema che abbiamo davanti è sì quello di ricostruire. Ma in assenza di macerie. È perché non ci sono ponti, strade e case distrutte che occorre capire quale società edificare e da dove cominciare. Tenere aperte le imprese, non farle morire per soffocamento finanziario è vitale. Ma ugualmente decisivo è capire dove e come investire per rigenerare un’economia che non potrà che essere diversa da quella che abbiamo conosciuto.

La seconda condizione ha a che fare col tema della solidarietà. Che non è un tratto delle anime belle, ma, come scriveva Kant, «una necessità pressante, un “essere o non essere”, una questione di vita o di morte».

Non, però, una solidarietà solo astratta – nelle mani dei grandi sistemi di cui disponiamo – ma anche concreta – che ci ingaggia come persone e come comunità. Se la vita non vuol ridursi a sopravvivenza, la fiducia-fede di cui abbiamo bisogno può nascere solo dalla consapevolezza che abbiamo potuto maturare in questi mesi: e cioè che siamo legati gli uni agli altri. Nel piccolo e nel grande. Nessun uomo è un’isola: lo abbiamo sentito sulla nostra pelle prima ancora che col ragionamento. Questo legame può essere per la morte o per la vita: l’esito non è scontato.

La terza condizione ha a che fare con gli assetti istituzionali e il principio di autorità. Come scrive de Tocqueville,

qualsiasi cosa succeda non si può fare a meno di incontrare l’autorità. Il suo posto è variabile. Ma un posto lo ha per forza. L’indipendenza individuale può essere più o meno grande ma non è illimitata. La questione non è quindi di sapere se c’è un’autorità intellettuale nei secoli democratici ma soltanto di sapere dove è concentrata e in quale misura (“La democrazia in America”. Scritti Politici).

Per ricostituire la fiducia in condizione di elevata incertezza, abbiamo bisogno di nuove autorità che aiutino i cittadini, le imprese, le associazioni, i gruppi sociali a non rimanere bloccati dall’angoscia bensì a mettere in gioco le loro capacità, sentendosi parte di uno sforzo comune. Non si può uscire dai postumi della pandemia senza qualche punto di riferimento che aiuti a osare quel passo che non sappiamo come compiere.

Senza istituzioni autorevoli, coese e ben funzionanti, in grado di dispensare quel senso di appartenenza e protezione di cui tutti sentiamo bisogno, nessuno si potrà af–fidare a/di nessuno.

La grande sfida di questa fase è riuscire a promuovere un nuovo equilibrio metastabile tra affidamento e iniziativa, imparando a convivere con quel margine di indeterminazione a cui ci costringe la nostra condizione di moderni. Attraversare il tempo del post-Covid comporta, cioè, l’imparare a convivere con l’angoscia, senza però lasciare che il mondo si derealizzi e si distrugga completamente.

da “Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo”, di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, Società editrice Il Mulino, 2020