Si succedono in questi giorni di fine estate i tanti eventi di cosiddetta formazione promossi dai diversi soggetti politici. Si tratta di brevi weekend trascorsi in località amene nell’attesa dell’arrivo del lider maximo di turno o di suoi succedanei con cui scattare selfie e scambiare regolamentari gomitate.
L’illusione, spero senza secondi fini, di organizzatori spesso digiuni di competenze formative ma sazi di propaganda sui social, è quella di fidelizzare una parte minimale dei ragazzi italiani cui purtroppo non è stato mai proposto da parte della scuola e meno che mai dall’università, alcun insegnamento civico. Tale fidelizzazione, tuttavia, non è di tipo contenutistico ma punta a fornire consenso a questo o quel ras locale che in tal mondo si accredita verso i propri referenti nazionali, millantando talvolta un consenso “tra i giovani” spesso inesistente e volatile.
Attesa la caratterizzazione post vacanziera e la breve durata di molti di tali eventi, nessuno spazio può essere riservato all’approfondimento delle cause storiche all’origine dei tanti problemi che il Paese si trascina dal tempo dell’unificazione nazionale; ancora minore è l’attenzione alle tecniche classiche della comunicazione pubblica le cui origini risalgono al tempo dei Sofisti del V secolo a.C.
Abili e competenti professionisti della parola insegnavano le principali arti del parlare in pubblico con finalità pratiche: l’Oratoria come capacità di parlare bene, in modo corretto e convocativo, la Retorica come abilità di disporre di solide basi a supporto delle proprie argomentazioni e la Dialettica, il sublime strumento per confutare la tesi dell’avversario, utilizzandone in modo rovesciato le medesime affermazioni. Di quest’ultima è residuato solo il trucco volgare e indisponente per l’uditorio di interrompere l’interlocutore, sperando che “perda il filo” del proprio discorso.
Un ulteriore elemento critico che prepara l’insuccesso di tali piccoli eventi è la confusa ibridazione che deriva dalla sostituzione dei Testimoni con gli influencer la cui differenza non sfuggirà al lettore attento che conosce bene la statura degli uni e degli altri.
Quindi, poche e frettolose analisi delle cause remote e recenti del disagio sociale dalla cui presa di coscienza origina ogni spinta ad intraprendere il lungo cammino del cambiamento, mancata proposta di strumentazione tecnico/relazionale, sostituita dal manuale di Facebook o di Twitter, assenza di maestri di vita e di militanza politica, ancor più preziosi se esponenti di visioni politiche opposte a quelle degli organizzatori, ampia diffusione dei libelli instant book di leader momentanei e transeunti, frutto della fatica di volenterosi ghost writer a tanto al chilo.
Essi ricordano il tormento del professore meridionale Luciano Sandulli interpretato dall’attore Silvio Orlando nel film di Daniele Lucchetti del 1991, “Il Portaborse”. Egli aspira ad ottenere l’intervento statale nell’antica casa in cui abita, dichiarata di interesse storico ma pericolante perché trascurata dal ministero dei beni culturali e il trasferimento della fidanzata, l’insegnante precaria Irene fuori sede, interpretata da Angela Finocchiaro.
Accetta così le umiliazioni imposte dal luciferino deputato Cesare Botero (Nanni Moretti) bulimico di ogni forma di potere. Si riscatterà clamorosamente nella scena finale del film e tornerà ad insegnare l’italiano agli studenti della Costiera Amalfitana che non ha mai dimenticato. L’onorevole Botero verrà rieletto.
Le vistose lacune nell’impianto formativo degli eventi formativi della politica odierna sono certo facciano inorridire esponenti di indubbio spessore culturale quali Gianni Cuperlo e Massimo D’Alema o, sul versante opposto, Marcello Veneziani o Pietrangelo Buttafuoco, passando per uomini e donne più vicini al mondo cattolico quali la sociologa Chiara Saraceno o Ernesto Olivero, fondatore del Sermig – Servizio Missionario Giovani – di Torino o ancora, con tutti i limiti umani della persona, come Andrea Riccardi che opera dal 1968 con la Comunità di Sant’Egidio.
Per non parlare di intellettuali appartenenti al clero più illuminato quali il Direttore della rivista Civiltà Cattolica, Padre Antonio Spataro, s.J. o il cardinale Gianfranco Ravasi.
Mentre sorvolo sui fasti e i risultati concreti ottenuti in passato dall’Istituto di studi comunisti (meglio conosciuto come Scuola delle Frattocchie) o di quella grande officina intellettuale e politica che fu la Federazione Universitari Cattolici Italiani – Fuci.
Trovo che le più recenti iniziative di formazione politica strutturate a tutto tondo, oltre ai già citati Sermig e Comunità di San’Egidio, siano state il Gruppo Politica, fondato da Piersanti Mattarella nel 1971 e la Libera Università della Politica – Lup, fondata nel 1994 da Padre Ennio Pintacuda s.J. le cui sessioni regolari erano concluse dagli eventi nazionali estivi tenuti a Filaga, frazione del paese siciliano di Prizzi (Pa) con la partecipazione di voci e di volti provenienti da ogni angolo del mondo.
Altri tempi, anche se non troppo lontani, ma soprattutto altri maestri ed altro stile formativo, improntato al rigore gesuitico circa la necessità di scelte coraggiose e controcorrente.
Resta indimenticabile il ricordo del compianto Giorgio Lago, a quel tempo direttore del principale quotidiano veneto, Il Gazzettino, cui nel tragitto tra Filaga e l’Aeroporto di Palermo cercai di illustrare i limiti e le trappole della “sicilianità”.
Dopo alcuni giorni pubblicò un famoso editoriale su La Repubblica dell’1 settembre 1996, intitolato Dal nord est a Corleone in cui esordiva provocatoriamente con le parole: «Siciliani, bruciate il Gattopardo». Un esempio di grande giornalismo che vale la pena rileggere nel testo d’archivio.
Si possono allora individuare le tre componenti necessarie per una Scuola di Formazione Politica all’altezza del compito: continuità e durata, carisma dei maestri, conoscenza e continuo studio del passato e del presente al fine di individuarvi “i segni dei tempi” e progettare il futuro. Necessari infine il confronto con opinioni dissonanti e la progressiva attività sul campo della militanza, quasi uno stage di cui discutere periodicamente con i propri mentori.
È soltanto da esperienze di tale levatura che può sorgere una nuova classe dirigente in quella suprema prova del sentimento e dell’ingegno umano che è la Politica su cui incombono la profezia e il monito di Enrico Berlinguer espressi durante una celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari quaranta anni fa:
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela; scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”».
Mi chiedo cosa direbbe oggi Berlinguer davanti allo spettacolo desolante della politica italiana dove persino il suo successore diretto, ma non erede, esita a difendere la rappresentanza democratica, non osando prendere una posizione netta sul voto referendario che ci attende a settembre, insegue, prono, il miraggio di un nuovo e più alto ruolo che non gli apparterrà mai.
O cosa penserebbe quell’Alcide de Gasperi che anche l’ultimo dei consiglieri comunali ormai si affanna a citare con parole di riporto, spesso imprecise.
In conclusione credo sia lecito affermare che gli attuali tentativi di avvicinare i giovani alla politica non può essere di parte o, anche se tale è il promotore, non può ridursi alla replica dal vivo dei tanti talk show che popolano le reti televisive né può essere il palcoscenico per esordienti allo sbaraglio come coloro che trovarono per la prima volta in Italia a Castrocaro Terme nel 1957 il palcoscenico che altrove era loro negato.
Quali nuovi sicofanti vi verranno allevati da presunti leader introdotti dallo psicopompo di turno?
L’uomo a cui la contemporaneità deve il concetto di relatività così nell’universo come in ogni assunto che si proponga come dogmatico ha detto: «Il mio ideale politico è l’ideale democratico. Ciascuno deve essere rispettato nella sua personalità e nessuno deve essere idolatrato. Per me l’elemento prezioso nell’ingranaggio dell’umanità non è lo Stato, ma è l’individuo creatore e sensibile, è insomma la personalità; è questa sola che crea il nobile e sublime, mentre la massa è stolida nel pensiero e limitata nei suoi sentimenti».
Il suo nome era Albert Einstein. Da tempo non ne sento più parlare. Caduto in un buco nero, mi dicono che ora si aggiri tra le corsie di un noto ipermercato, mostrando la lingua ai voraci consumatori di reificate speranze offerte “tre per due”.
Peccato, da lui sarei andato volentieri a scuola di formazione politica.