«Non vi sto chiedendo di farvelo piacere. Vi sto chiedendo di capirlo», ha detto alla Commissione Libertà Civili del Parlamento Europeo il Commissario Margaritis Schinas, presentando il New Pact on Migration and Asylum. Non che gli europarlamentari italiani avessero bisogno di questa precisazione: la proposta non sembra particolarmente apprezzata né a destra né a sinistra. Da entrambe le parti si sono levate voci critiche sugli aspetti fondamentali del pacchetto e, pur da posizioni diametralmente opposte, da entrambe le parti si contesta la mancanza di una reale solidarietà europea.
«É una proposta inadeguata, con la quale si rischia di fare dell’Italia il campo profughi di Europa» afferma a Linkiesta Annalisa Tardino, eurodeputata siciliana della Lega, utilizzando una definizione cara anche al suo leader Matteo Salvini. La parlamentare denuncia «l’abbandono di Italia e Grecia» che «subiranno il bluff della mancata cancellazione di Dublino». Questo passaggio chiave della riforma, in effetti, solleva più di un dubbio.
Nel testo della Commissione, il principio del Paese di primo ingresso per individuare lo Stato responsabile di una richiesta di asilo viene sì subordinato ad altri quattro, ma si tratta di circostanze non così comuni. Un non meglio specificato «interesse del bambino» (che quindi si applicherebbe solo ai minori), la presenza di un parente richiedente o rifugiato in uno Stato membro, il possesso in passato di un visto o permesso di soggiorno, così come di un titolo di studio o qualifica professionale ottenuti in un Paese membro: condizioni queste ultime che ovviamente non possono riguardare chi arriva in Europa per la prima volta.
Tardino lamenta il fatto che l’Italia si troverà a gestire molte richieste d’asilo senza riuscire a espellere dal Paese chi non ha diritto alla protezione. Il timore appare fondato se si guarda agli ultimi numeri: nel 2019 circa 62mila persone hanno ricevuto un diniego alla loro domanda, il 64,8% del totale dei richiedenti. Nello stesso anno il nostro Paese ha effettuato 7054 rimpatri nei Paesi d’origine.
La questione riguarda in particolar modo gli approdi via mare, poco più di 23mila a settembre 2020. Le persone arrivate sulle nostre coste quest’anno sono in prevalenza tunisini, bangladesi, algerini e ivoriani: tutte nazionalità con basse percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato. Questo fattore, abbinato all’abolizione della protezione umanitaria disposta dal primo Decreto Sicurezza, rende la maggior parte di loro destinata al rimpatrio.
La Lega (ma sulla stessa linea si attesta anche Fratelli d’Italia) vorrebbe quindi eseguire la valutazione sull’asilo fuori dai confini nazionali, cosa che l’attuale proposta della Commissione non prevede. «Chiediamo da tempo l’istituzione di hotspot direttamente nei Paesi di origine e transito dei migranti, nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, per fare a monte la distinzione tra chi ha diritto alla protezione internazionale, e chi non scappa da guerre o persecuzioni», spiega la deputata leghista. Tardino è poi scettica sulla parte dei rimpatri, che pure in Commissione Diritti Umani aveva definito «l’unica con un minimo di buon senso».
L’onorevole chiedeva in che modo spingere i Paesi terzi a «riprendersi» i propri cittadini, paventando l’ipotesi, tra l’altro valutata anche dalla Commissione, di utilizzare la concessione dei visti come leva per migliori accordi in merito.
Contrariata anche dai riferimenti alle Ong (la Commissione raccomanda di non criminalizzare i soccorsi umanitari), Tardino non crede che il Pact on Migration porti a una vera condivisione della responsabilità in Europa. «Diversi Stati Membri hanno già fatto capire che di solidarietà obbligatoria nemmeno vogliono sentire parlare. I Paesi di frontiera continueranno a restare soli nella gestione del fenomeno».
A livello di politica nazionale la ricezione del Patto è inevitabilmente influenzata anche dalla strategia del momento degli attori in campo. Così Giorgia Meloni bolla il testo come «una doccia gelata al governo PD-M5S» per mettere in cattiva luce Giuseppe Conte, il quale invece su Twitter aveva parlato di un «importante passo verso una politica migratoria davvero europea». Una reazione comunque molto timida quella della maggioranza, che lascia subito emergere le sue crepe. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, con un primo accenno di analisi, ha sottolineato come manchi il punto fondamentale della questione. «Ai ministri dell’Interno d’Europa chiederemo il superamento completo dell’attuale sistema che ruota intorno alla responsabilità dello Stato in ingresso».
Riserve ancora maggiori arrivano da quegli europarlamentari che a Bruxelles seguono il dossier immigrazione, come Laura Ferrara del Movimento 5 Stelle («Ci sono troppi nodi da sciogliere, al Parlamento europeo lavoreremo per rendere efficiente e più ambiziosa la proposta») e soprattutto Pietro Bartolo del Partito Democratico, che della Commissione Diritti Civili (LIBE) è vice-presidente. «Ci aspettavamo un patto più giusto verso i Paesi esposti agli sbarchi. Io questa annunciata solidarietà non la vedo», dice a Linkiesta Bartolo, che per oltre 20 anni ha fatto il medico a Lampedusa, assistendo i migranti appena approdati. Anche secondo l’eurodeputato del Pd, il nodo principale rimane la mancanza di un meccanismo per rendere obbligatori i ricollocamenti di chi chiede asilo: «L’unica soluzione efficace era quella già votata a larga maggioranza dal Parlamento Europeo nella scorsa legislatura. Ma alcuni Paesi sono allergici alla parola ‘ricollocamento».
La proposta di cui parla Bartolo è stata ai tempi però fortemente osteggiata in Consiglio Europeo dal blocco di Visegrad: Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia. Alle loro posizioni sembra allinearsi ora anche l’Austria, con il cancelliere Sebastian Kurz pronto ad assicurare che la redistribuzione non funzionerà. Proprio per evitare un altro netto rifiuto, hanno fatto capire da palazzo Berlaymont, questo Patto non contempla ricollocamenti obbligatori sui territori degli Stati Membri. «Così però la Commissione si piega a quei Paesi piccoli che fanno la voce grossa e riescono a dettare la propria agenda».
Secondo l’europarlamentare ci sono poi altri punti molto critici. In primis la procedura di pre-entry screening, che prescrive di identificare ogni nuovo arrivato entro cinque giorni, in strutture «vicini ai confini esterni» dell’Unione e si applicherà a tutte le persone salvate in mare. «Ci saranno altre Lampedusa, altre Lesbo. La procedura sarà farraginosa: aumenterà il carico per i luoghi di frontiera e la sofferenza di chi viene esaminato».
Tante perplessità anche sul return sponsorship, il meccanismo che prevede rimpatri a carico dei Paesi non di frontiera. «Non possiamo trattare i migranti, che sono persone, come pacchi postali». Proprio i rimpatri, così centrali nella visione della Commissione, sono oggetto di un’aspra critica. «Fare accordi con tutti i Paesi di origine è un’operazione utopica, sono tantissimi. Bisogna puntare su ritorni volontari e assistiti, che garantiscano la salute di queste persone e non le espongano a pericoli».
La contestazione di Bartolo alla politica migratoria europea però è più profonda e strutturale. Arriva mettere in discussione la stessa suddivisione fra i titolari di protezione internazionale e i cosiddetti “migranti economici”, ovvero fra chi può e chi non può, allo stato attuale delle cose, restare in Europa. «Io questa distinzione non l’accetto. Anche chi scappa dalla miseria merita attenzione e dovrebbe avere diritto al rilascio di un permesso di lavoro. Mi devono ancora spiegare che differenza c’è fra morire per la guerra o morire di fame».