L’ultimo, recentissimo, disastro ambientale causato dalla dispersione di miscele residue del petrolio riguarda le isole Mauritius. In questo arcipelago dell’Oceano Indiano dal 25 luglio buona parte delle quattromila tonnellate dei combustibili presenti sulla nave giapponese MV Wakashio, una portarinfuse (bulk carrier) costruita nel 2007 e battente bandiera panamense, si sono riversate in mare. Interessando circa 15 chilometri di costa e causando danni incalcolabili all’ecosistema.
«I combustibili di bordo, detti genericamente bunker oil, una volta in acqua subiscono trasformazioni chimico-fisiche che li rendono particolarmente recalcitranti e persistenti. La loro nocività persiste e causa effetti a medio e lungo termine, dovuti a un’abbondanza di molecole cancerogene, mutagene e teratogene», sottolinea Ezio Amato, naturalista, ricercatore e docente universitario esperto in emergenze ambientali in mare e conseguenze ambientali di conflitti armati. Tra le miscele petrolifere presenti sul cargo giapponese ci sono anche un combustibile tipo diesel e olii lubrificanti. «Questi, come le vernici e altri prodotti normalmente conservati a bordo, sono inquinanti marini altrettanto impattanti», continua Amato.
La Wakashio, arenata su una barriera corallina a circa 2 km da Pointe d’Esny in prossimità del Parco marino Blue Bay, delle zone umide di Pointe d’Esny e del Parco nazionale delle isole minori, inizialmente presentava una falla da cui fuoriusciva il carburante. Poi si è spezzata in due, rendendo lo sversamento massiccio e inarrestabile.
Questo ha presto fatto insorgere la rabbia e frustrazione degli abitanti dell’isola: secondo loro le autorità locali e internazionali non sarebbero intervenute con prontezza, non avrebbero messo in atto azioni adeguate a scongiurare il peggio. Il tempo intercorso tra l’incagliamento e le prime operazioni di pompaggio è stato infatti di 13 giorni. Decisamente troppi.
BREAKING NEWS: Mauritians take to the streets to denounce their government's perceived mishandling of the oil disaster! 🇲🇺 We stand in solidarity with Mauritius! #NotoOil #ProtectTheOceans #JusticeforMauritius #Mauritius #MauritiusOilSpill pic.twitter.com/XS0rCoLLYj
— Greenpeace Africa (@Greenpeaceafric) August 29, 2020
Le autorità si sono attivate solo il 6 agosto, giorno in cui venivano pubblicate le prime immagini satellitari che testimoniavano la presenza di macchie scure in mare. Il 7 agosto è partita la richiesta di aiuto alla Francia e il Primo ministro delle Mauritius, Pravind Jugnauth, ha dichiarato lo stato di emergenza ambientale.
Le naufrage du #Wakashio représente un danger pour l'île Maurice. Notre pays n’a pas les compétences et l’expertise pour le renflouage des navires échoués, c’est ainsi que j’ai sollicité l’aide de la #France à @EmmanuelMacron. pic.twitter.com/30m2pQzEy4
— Pravind Jugnauth (@PKJugnauth) August 7, 2020
Ora le autorità sono al lavoro per determinare il motivo per il quale la nave lunga 300 metri, di proprietà di Nagashiki Shipping e noleggiata da Mitsui OSK Lines, abbia deviato più di 55 miglia nautiche da una normale rotta di navigazione quando si è arenata.
Lo sversamento in acqua delle miscele residue del combustibile sta provocando gravi conseguenze sulle lagune, sulle barriere coralline circostanti, sulle foreste di mangrovie e sulla biodiversità, ricoprendo le coste di fango nero. Da quando la fuoriuscita di idrocarburi è iniziata almeno 40 tra delfini e balene sono stati rinvenuti morti intorno all’isola, da sempre serbatoio unico di biodiversità. Basti pensare che l’ambiente marino mauriziano ospita 1700 specie viventi, tra cui circa 800 tipi di pesci, 17 di mammiferi marini e due specie di tartarughe.
«Tra le conseguenze dell’incidente che ha colpito l’isola principale si deve ricordare l’affondamento volontario, a grandi profondità, del relitto della sezione prodiera che si è staccata dal resto nave da carico», precisa Amato. «In aggiunta alla tossicità acuta che può causare morie di invertebrati e vertebrati e alle conseguenze a medio e lungo termine, che si manifestano con tumori, nascita di prole deforme e mutagenesi, il naufragio ha causato, oltre alla perdita dei combustibili di bordo, l’inquinamento del fondale dove ora giacciono i materiali di cui sono costituiti i resti della prua. Altre conseguenze ambientali possono essere determinate da incidenti o dall’adozione di pratiche non adeguate durante l’attuale fase di pulizia e messa in sicurezza di ciò che resta della nave».
«Episodi di inquinamento come questi sono micidiali», sottolinea il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi. «Il petrolio, che si è affermato sul carbone grazie alla sua maggiore trasportabilità, è sempre stato un problema perché è un problema. Si presenta come un’offerta vantaggiosa quando, in realtà, nasconde molte, troppe, insidie». Uno dei problemi che non rende sicuro il trasporto del combustibile è che le navi non vengono tracciate. E, tra l’altro, molte di queste non presentano una doppia protezione di scafo in grado di proteggere il contenuto trasportato.
Disastri ambientali come questo, oltretutto, non vengono mai pagati. «Attribuirne la responsabilità è molto complicato. E difficilmente qualcuno si fa avanti», continua Tozzi. «La potenza inquinante del petrolio è altissima. Un centimetro cubo di idrocarburi (cioè la grandezza di un dado) uccide al 90% la vita in un metro cubo di acqua. Non risulta allora così difficile quantificare la vita sacrificata». I danni indotti dal riversamento del petrolio gravano anche sul lungo periodo. La parte più pesante del carburante, infatti, si adagia e incrosta i fondali e la barriera corallina.
«Ci siamo illusi, considerando il petrolio una risorsa – sottolinea Tozzi – Ora, invece, ci stiamo sempre più accorgendo che si tratta di un “cavallo di Troia”: una volta entrato dentro le nostre mura non riusciamo più a liberarcene. Questo anche perché ci lascia quasi senza alternative».
Il disastro ecologico in atto in Africa ha infiammato, e continua ad alimentare, le proteste degli abitanti dell’arcipelago mauriziano. Parallelamente, ha attivato una catena di solidarietà e volontariato che ha dato vita a diverse iniziative, come quella di produrre sacchi riempiti di foglie di canna da zucchero come scudo all’avanzata della marea, e l’operazione di bonifica con il supporto di marinai. Tre di loro, il 2 settembre, sono morti perché il rimorchiatore su cui stavano lavorando si è ribaltato.
Il disastro ambientale che oggi avvelena le isole Mauritius ne evoca almeno altri tre molto recenti. È il caso di quelli che hanno interessato, e che interessano tuttora, Brasile, Siberia e India. L’inquinamento petrolifero di oggi richiama forse gli stessi scenari e, di sicuro, lo stesso problema. «Ciò che accomuna questi gravi fenomeni d’inquinamento – suggerisce Amato – sono sostanzialmente due cose: l’essere eventi eclatanti perché grandi quantità di idrocarburi del petrolio che hanno imbrattato coste, animali e cose sono ben visibili e il trovare causa nell’imperizia o nell’incapacità o nella distrazione di progettisti, controllori e uomini a bordo di navi e piattaforme offshore».
Partiamo dal Sudamerica. Nel luglio 2019 sulle coste del nord-est del Brasile oltre 500 tonnellate di petrolio hanno invaso le spiagge di 9 stati, toccando 200 siti balneari per un’area di oltre 2mila chilometri quadrati. L’incidente, inizialmente ricondotto a una “nave fantasma” che trasportava petrolio venezuelano in violazione delle sanzioni statunitensi, è stato poi ricondotto alla petroliera Bouboulina della Delta Tankers Ltd, con base al Pireo, Grecia e infine a cinque navi (di altrettanti stati, tra cui la Grecia).
Tra le aree colpite dal disastro ambientale importanti siti balneari, fiore all’occhiello del turismo brasiliano, come Ilheus, Pedro do Sal e Praia Do Futuro. Non si sono fatte mancare pesanti ripercussioni anche sulla fauna, che hanno compromesso la stagione di riproduzione di uccelli e tartarughe, e la flora, soprattutto quella della barriera corallina della parte nord-orientale della costa brasiliana. I danni alle specie ittiche locali rimangono tuttora incalcolabili.
Dal Sudamerica ci spostiamo in Asia precisamente in India. Qui, il 27 maggio 2020, gli oltre 8mila abitanti del villaggio di Baghjan, nel distretto di Tinsukia (regione di Assam), sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. La causa è stata l’esplosione del pozzo petrolifero numero 5 presente sul campo di estrazione della Oil India Limited vicino al sito urbano. L’incidente, che ha causato morti e migliaia di sfollati, ha portato al rilascio in aria e nell’ambiente circostante di gas tossici e idrocarburi, avvelenando anche l’acqua.
Dopo l’iniziale esplosione, nell’aria si sono diffuse sostanze tossiche: una coltre che ha distrutto le piantagioni di the, la principale risorsa della comunità, ucciso il bestiame e inquinato i fiumi. Nell’area in cui sorge il villaggio convergono le acque di corsi fluviali affluenti del Brahmaputra, uno dei maggiori sentieri liquidi del subcontinente indiano con un bacino idrografico di oltre 650 mila chilometri quadrati. Fonte importante per l’economia della zona ma anche per la diversità biologica dell’area.
Il campo estrattivo di Baghjan si trova vicino le paludi di Maguri-Motapung, parte del Parco Nazionale di Dibru-Saikhowa, ricco di specie di uccelli e pesci e popolato dal delfino del Gange, considerato nel subcontinente indiano “animale acquatico nazionale”.
A satellite view at what rivers Ambarnaya and Daldykan outside Norilsk look now after the spill of more than 20,000 tonnes of diesel fuel pic.twitter.com/Wwpx2UqsLp
— The Siberian Times (@siberian_times) June 4, 2020
Infine, arriviamo in Siberia. Qui, pochi giorni dopo il disastro ambientale scoppiato nella vicina India, se n’è consumato un altro. La causa, in questo caso, è stata la fuoruscita di petrolio dal serbatoio collassato della centrale termoelettrica di Norilks-Taimyr. Si tratta uno dei più gravi sversamenti inquinanti della storia della Russia moderna, con il rilascio nell’ambiente di oltre 20mila metri cubi di gasolio. Per far fronte all’evento, a giugno il presidente Vladimir Putin aveva dichiarato lo stato d’emergenza per l’area: il gasolio si era riversato sui terreni circostanti, nel fiume Ambarnaya e nel suo affluente Daldykan. Nonostante le misure di contenimento adottate, il 9 giugno The Moscow Times aveva riportato che era arrivato anche al lago Pyasino, nel quale sfocia Ambarnaya e dal quale parte il fiume omonimo per raggiungere il Mar Glaciale Artico.
Tutto noi abbiamo qualche responsabilità nell’incentivare disastri ambientali come questi. «Ad esempio, quella di essere troppo spesso consumatori inconsapevoli dei costi ambientali di uno sviluppo insostenibile, praticato e auspicato», sottolinea Amato.
Ma disponiamo anche della possibilità di supportare chi queste emergenze le affronta in prima linea. Pensando in particolare all’episodio delle Mauritius, Amato sottolinea che: «possiamo sostenere gli sforzi delle amministrazioni dello stato deputate alla tutela degli ambienti marini e costieri e delle organizzazioni non governative a questo dedicate e spingere a riconsiderare la diffusione globale dei traffici marittimi in rapporto agli stretti legami e agli equilibri che regolano mari e oceani e influiscono sul clima».
Studiare e incentivare la divulgazione dei dati sugli effetti che episodi di inquinamento come questi hanno sulla vita del pianeta secondo Amato può fare la differenza. «Ogni incidente con le sue conseguenze ambientali ci insegna qualcosa di nuovo che potrà migliorare le nostre capacità di risposta in altri casi», conclude Amato.