Della fine dell’era del combustibile fossile si parla ormai da decenni, ma questa volta sembra che la sua ora sia davvero arrivata. A determinare l’avvio di una nuova era, però, non sarà la mancanza di petrolio, ma la sua sostituzione con fonti di energia alternative ottenibili ad un costo minore e maggiormente remunerative.
Come si è arrivati alla fine dell’era del petrolio
La fine dell’era del petrolio è stata più volte posticipata dagli analisti, ma le stime sul settore dei combustibili fossili realizzate a inizio del 2020 non avevano fatto i conti con due importanti sconvolgimenti: la guerra dei prezzi innescata dall’Arabia Saudita e la pandemia da coronavirus. A queste variabili vanno poi aggiunti altri due elementi che avevano già messo in allarme i produttori di petrolio: il cambiamento climatico e lo shale oil americano.
Il surriscaldamento globale sta costringendo gli Stati di tutto il mondo a investire su fonti di energia rinnovabili e meno inquinanti rispetto al petrolio. Questo cambiamento nelle politiche energetiche aveva già fatto suonare i primi campanelli di allarme nei Paesi che basano la propria economia sull’esportazione di petrolio, convincendo i più avanzati tra questi a diversificare la propria economia con risultati più o meno soddisfacenti.
Anche l’entrata nel mercato petrolifero degli Stati Uniti con lo shale oil – estraibile dal terreno grazie a tecniche particolarmente dannose per l’ambiente – ha modificato gli equilibri nel settore, aumentando così la concorrenza e trasformando gli Usa da importatori a produttori. Con conseguenze non solo economiche, ma anche geopolitiche. Proprio il desiderio di limitare la concorrenza americana ed eliminare i newcomers ha portato nel 2015 l’Arabia Saudita a mantenere invariata la produzione nonostante la grande quantità dell’offerta, facendo così crollare il prezzo del petrolio.
La strategia saudita ha però fallito: gli shale oil hanno resistono, mentre i Paesi più vulnerabili dell’Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) ne hanno risentito. Il settore inoltre si è ripreso solo nel 2017, quando venne siglata un’alleanza con la Russia che portò alla nascita dell’Opec+, inaugurando una stagione di tagli alla produzione per far risalire il prezzo del barile. Con l’arrivo del coronavirus, però, la situazione è peggiorata. I sauditi hanno imposto ulteriori tagli, ma al no della Russia Riad ha risposto aumentando la produzione e causando un insostenibile abbassamento dei prezzi, costringendo Mosca a cedere. Con danni anche all’economia e alle casse della stessa Arabia Saudita. La pandemia da coronavirus e le conseguenze economiche del lockdown hanno fatto poi il resto, causando un accumulo eccessivo del greggio e un nuovo abbassamento dei prezzi, stabilizzatisi intorno ai 40 dollari al barile sull’indice Bent.
Ma quanto tempo resta prima che si arrivi all’era post-petrolifera? Come detto, a decretare la fine del predominio del petrolio non sarà la sua scomparsa, ma la sua minore rimuneratività e la sua sostituzione con altre fonti energetiche. A questo proposito, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha previsto che la quota di petrolio nel mix globale di carburanti dovrebbe attestarsi intorno al 32 per cento nel 2020, fino a scendere a quasi un quarto entro il 2040, anno in cui la quota di energie rinnovabili dovrebbe invece salire fino al 14 per cento.
Come fanno notare dalla rivista Energia, è tuttavia difficile stabilire una data certa per il tramonto del petrolio: molto dipende dalle politiche energetiche messe in campo dagli Stati per limitare i danni del cambiamento climatico e dall’impatto che shock come la pandemia avranno sul settore.
Il ruolo dell’Opec+ e il prezzo del petrolio
In un contesto in cui il petrolio è sempre meno remunerativo, che ruolo dovrebbe avere l’Opec+, che ha già dimostrato di non essere più in grado di controllare il mercato come in passato? La domanda se la sono posta gli stessi membri dell’Organizzazione, ma la risposta tarda ancora ad arrivare. Come detto da alcuni funzionari dell’Opec all’agenzia stampa Reuters, il gruppo dovrà imparare a convivere con un inesorabile declino del prezzo del petrolio e trovare il modo non solo di resistere alla concorrenza proveniente dall’esterno, ma anche ai problemi che nasceranno fra i suoi stessi membri.
La Libia, per esempio, fa parte dell’Opec, ma a causa della guerra civile in corso dal 2011 non produce né vende petrolio a pieno regime e il suo inevitabile rientro nel mercato avrà degli effetti sul prezzo del barile. Anche il comportamento di Iran e Venezuela, colpiti dalle sanzioni americane, avrà delle conseguenze sul mercato energetico dato che i due Paesi potrebbero spingere per un aumento della produzione nel tentativo di aumentare le proprie entrate.
In questo scenario non va poi dimenticato l’impatto dello shale oil, il cui futuro resta tuttavia incerto. Come detto, le imprese Usa (e canadesi) sono riuscite a reggere alla caduta del prezzo del 2015, ma stanno iniziando a risentire del prolungato abbassamento dei prezzi derivante dalla pandemia. Affinché lo shale oil sia remunerativo, il prezzo del barile deve aggirarsi intorno ai 60 dollari, ma al momento la media è di soli 40. In un simile contesto, la prospettiva è che le aziende più piccole e i siti da cui estrarre petrolio è più difficile (come per esempio l’Artico) chiuderanno, a fronte anche di una minore fiducia degli investitori, portando a una stabilizzazione degli attori del mercato.
L’inevitabile diminuzione della domanda di petrolio nei prossimi decenni e il calo dei costi per gli impianti in grado di produrre energia rinnovabile porterà quindi a una diminuzione del prezzo del barile, rendendo sempre meno conveniente investire nel settore petrolifero. Basta pensare che i proventi dell’oro nero per il Medio Oriente e il Nord Africa sono passati da più di mille miliardi di dollari nel 2012 a 575 miliardi di dollari nel 2019, secondo le stime di Fmi.
Era post-petrolifera: chi resiste e chi perde
Lo spettro della fine dell’era del petrolio ha portato i Paesi del Golfo a lanciare una serie di Vision per rendere le proprie economie diversificate e meno dipendenti dell’oro nero. Non tutti però sono in grado di puntare a un futuro senza petrolio e quei pochi che hanno messo in campo strategie di diversificazione non sono riuscite a raggiungere i risultati sperati.
Ad oggi, il Paese che investe maggiormente nel settore delle rinnovabili sono gli Emirati Arabi Uniti: nel 2017 Abu Dhabi ha lanciato l’Energy Strategy 2050 con il proposito di generare il 75 per cento dell’energia elettrica tramite fonti rinnovabili, riducendo allo stesso tempo del 70 per cento le emissioni di carbonio e migliorando l’efficienza energetica del 40 per cento. Ma molto resta ancora da fare.
Famosa è anche la Vision 2030 del principe ereditario saudita Mohamed bin Salman (MbS), che punta a rendere l’economia del Paese indipendente dal petrolio entro i prossimi dieci anni grazie a investimenti in turismo, svago, grandi eventi, sanità ed educazione. La crisi del prezzo del petrolio e i danni causati dal coronavirus hanno però costretto MbS a rivedere il programma di sviluppo, aumentando l’Iva e a operando dei tagli nel settore pubblico.
In generale, gli investimenti dei Paesi del Golfo nelle energie rinnovabili sono ancora bassi: ad oggi solo il 7 per cento della produzione energetica viene da fonti diverse dal petrolio, che continua a costituire il 90 per cento dei ricavi della penisola.
Il Paese della regione meno preparato all’era post-petrolifera è invece l’Oman, che esporta il 90 per cento del proprio petrolio in Cina, partner diventato negli ultimi anni fondamentale per coprire i buchi di bilancio di Mascate. Ma ad essere colpiti dal crollo del prezzo del barile sono soprattutto gli Stati africani quali Algeria, Angola, Nigeria, Guinea Equatoriale e Gabon, questi ultimi due entrati da poco nel mercato del fossile e dipendenti quasi esclusivamente dall’oro nero. Anche Venezuela, Turkmenistan, Azerbaijan e Bahrein sono ancora fortemente legati ai proventi del petrolio e come altri Paesi esportatori hanno visto il loro debito estero aumentare e le riserve finanziare diminuire di pari passo.
Russia e Arabia Saudita, fanno notare dall’Ispi, hanno invece accumulato abbastanza capitale per resistere alla diminuzione del prezzo del barile, ma Riad ha già speso almeno 45 miliardi di dollari delle sue riserve e a questi ritmi rischia di vedere il riad svalutato entro la fine dell’anno.
Cosa comporta la fine delle petromonarchie
Il crollo del prezzo del petrolio e la fine del predominio dell’oro nero avranno conseguenze importanti non solo a livello economico, ma anche geopolitico. La presenza di giacimenti petroliferi in Medio Oriente definisce da decenni le politiche americane nella regione, stabilendo alleanze e nemici e coinvolgendo direttamente gli Usa in conflitti non ancora terminati. Ma con la scoperta dello shale oil e il passaggio all’era post-petrolifera, Washington è sempre più determinato a lasciare l’area mediorientale, come dimostra la politica estera del presidente Donald Trump.
I Paesi mediorientali, privati della protezione a stelle e strisce, si ritrovano quindi a dover pensare da soli alla propria sicurezza ed è in questo contesto che si inserisce anche l’allineamento degli Emirati arabi uniti (e non solo) a Israele e le voci sempre più insistenti della nascita di una “Nato araba”. Il vuoto lasciato dagli Usa potrebbe però essere riempito da Cina e Russia attraverso ingenti investimenti economici, come nel caso della Nuova via della seta cinese che coinvolge tanto il Medio Oriente quanto l’Africa.
La fine della ricchezza derivante dal petrolio metterà in crisi anche la stabilità sociale dei Paesi esportatori e il patto su cui si basa il loro potere: i cittadini e i sudditi delle monarchie del Golfo per esempio hanno rinunciato a una parte delle loro libertà in cambio di ingenti investimenti nel settore pubblico, ma in futuro non sarà più possibile per chi governa garantire gli stessi standard. L’economia dovrà aprirsi sempre più ai privati e la fornitura dei servizi pubblici sarà legata al pagamento di maggiori tasse: a quel punto però i cittadini saranno più esigenti nei confronti di chi governa per quanto riguarda l’efficienza dei servizi e la trasparenza nelle spese.
A pagare le conseguenze dell’era post-petrolifera saranno anche i lavoratori stranieri e i loro Paesi di origine, la cui economia si regge anche sulle ingenti rimesse provenienti dalla manodopera impiegata fuori dai confini nazionali. Egitto, Libano e Giordania sono tra gli Stati che risentiranno maggiormente della mancanza non solo delle rimesse, ma anche dei finanziamenti diretti dei Paesi del Golfo. Il Cairo, Amman e Beirut sono fortemente legate a Riad e la crisi del Regno ha avuto un forte impatto sulle loro economie, con risvolti importanti anche a livello sociale. D’altra parte, ci si aspetta che anche la capacità di alcuni Paesi petroliferi di estendere la propria influenza all’estero diminuisca con la riduzione delle loro ricchezze.
Con il venir meno dei proventi del petrolio rischia di ridursi anche il potere di acquisto dei consumatori dei Paesi del Golfo, con effetti a cascata anche sulle economie della regione. Secondo l’Economist, per fare un esempio, in Libano i turisti provenienti da Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati rappresentano un terzo di quanto speso in totale dai turisti. Non bisogna poi dimenticare gli ingenti investimenti fatti negli ultimi anni dalle petromonarchie anche nel mercato europeo e che hanno interessato diversi settori, da quello turistico-immobiliare fino a quello sportivo. Secondo il Sole24Ore, tuttavia, i fondi di investimento dei Paesi del Golfo hanno continuato a fare acquisti in Europa proprio per garantire ai regnanti entrate diverse da quelle petrolifere, per cui ci si aspetta un’inflessione contenuta negli investimenti esteri.
Cosa resta?
In un futuro decarbonizzato asset materiali quali infrastrutture di estrazione, trasporto, trasformazione, distribuzione di combustibili fossili che ruolo potranno ancora avere? «Vi sono opportunità per le compagnie che saranno in grado di trasformarsi da petrolifere a energetiche integrate, anche sfruttando la riconversione di asset esistenti per lo stoccaggio e il trasporto, ad esempio, di idrogeno, gas rinnovabile, o anidride carbonica», spiega a Linkiesta Marco Giuli, analista dell’European policy center ed esperto in politiche energetiche e cambiamenti climatici. «Lo stesso vale per i petrostati che saranno in grado di utilizzare la rendita petrolifera – qualora sia stata gestita in modo oculato – per sostenere la diversificazione economica o specializzarsi in forme di energia alternativa».
I combustibili fossili inoltre «sono consumati attraverso sistemi tecnologici, a loro volta parti integranti di sistemi socio-economici. La domanda è dunque se la transizione si limiterà agli aspetti tecnologici all’interno di un sistema socio-economico le cui strutture rimarranno sostanzialmente inalterate o marginalmente alterate, o se implicherà una dinamica trasformativa rispetto a tali sistemi, tanto dal lato materiale che da quello ideazionale».
Quale futuro attende invece le megalopoli costruite con i petrodollari o i grandi progetti non ancora terminati? «La costruzione di ulteriori “cattedrali nel deserto” è ancora fattibile, visto che i petrodollari continueranno a circolare per molto tempo, ma altra cosa è la sostenibilità di lungo periodo», prosegue Giuli. «Quest’ultima dipende dalla capacità degli Stati di diversificare le proprie economie e prosperare in un futuro – per quanto riguarda il Golfo – condizionato dalla pressione combinata del declino dei combustibili fossili e degli effetti dei cambiamenti climatici, particolarmente severi nella regione».