La battaglia contro TikTok e WeChat è appena iniziata. La mossa dell’amministrazione Trump contro le due app cinesi è solo la punta di un iceberg che rischia di infrangersi sull’intero sistema globale. Stiamo parlando della guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina che potrebbe spaccare l’attuale ecosistema tech in due parti che non dialogano tra loro. Già oggi il mondo digitale è diviso a metà, i cittadini della Repubblica popolare fruiscono infatti di un’architettura internet radicalmente diversa dalla nostra con motori di ricerca, social network e app di messaggistica diversi.
Se è vero che l’innovazione cinese in campo tecnologico fa segnare passi da gigante è altrettanto vero che Pechino ha ancora diverse fragilità. Il distaccamento dell’economia del Dragone da quella americana rischia di essere dannoso soprattutto per gli obiettivi cinesi. Stando a un’analisi di Bloomberg Economics il potenziale di crescita del Paese per il 2030 potrebbe scendere dal 4,5% al 3,5% nel caso di un conflitto tra le due economie.
La fame di chip che solo gli Usa possono soddisfare
Il settore che colloca gli Stati Uniti davanti alla Cina è quello dei semiconduttori. Secondo i dati doganali nei primi sette mesi del 2020 la Cina ha importato 184 miliardi di dollari di circuiti integrati stranieri, il 12% in più rispetto allo stesso periodo del 2019, quando il conto finale toccò i 300 mld. Qualche settimana fa Reuters metteva in luce che ancora oggi la dipendenza è così marcata che il 95% dei server cinesi impiega Cpu Intel. In generale molte aziende cinesi impegnate nello sviluppo di semiconduttori si appoggiano ad apparecchiature e brevetti americani.
Questi numeri fanno capire bene che se Washington dovesse restringere ancora di più le forniture, per la Cina sarebbe un grosso problema. Per Arthur Ge, managing director della Legend Capital, braccio d’investimento della cinese Lenovo, se l’America decidesse di colpire alcuni punti chiave della catena di fornitura dell’industria tecnologica cinese, in particolare quella sulla manifattura avanzata di chip, l’impatto sarebbe devastante.
Rebecca Arcesati, analista del Mercator Institute for China Studies di Berlino, ha spiegato a Linkiesta come l’ecosistema tecnologico cinese si erga su basi ancora fragili: «c’è una notevole innovazione in diverse ambiti tecnologici, trainata soprattutto dal settore privato, ma anche delle debolezze notevoli in vari campi della ricerca scientifica».
Washington intanto si prepara a nuove strette. Qualche settimana fa Reuters ha riportato la notizia che gli Usa sarebbero pronti a introdurre particolari restrizioni nelle esportazioni di apparecchiature per la produzione di semiconduttori. Nell’ultimo periodo l’acquisizione di Arm Holdings da parte di Nvidia ha complicato ancora di più lo scenario. L’azienda britannica, controllata dalla giapponese Softbank, si occupa di microprocessori per smartphone e tablet. Ufficialmente non tratta la produzione, ma concede in licenza la proprietà intellettuale per progettare chip con la sua architettura. Per ora Arm dovrebbe restare nel Regno Unito, ma il passaggio sotto una società americana apre scenari complessi per la Cina dato che eventuali embarghi colpirebbero uno dei settori chiave del mercato mobile cinese.
Le contromisure cinesi
In questo clima Pechino sta lavorando per arrivare a una maggiore autonomia. La spinta decisiva dovrebbe arrivare con il 14esimo piano quinquennale per il periodo 2020-2025. L’ultimo step per concludere il piano “Made in China 2025”, un’iniziativa che punta a sviluppare la manifattura cinese trasformando il Paese da “fabbrica del mondo” a polo di eccellenza tecnologica.
I leader cinesi che inizieranno i lavori a ottobre dovranno discutere delle integrazioni per il comparto dei chip. La bozza, ha scritto Bloomberg, prevede misure per rafforzare la ricerca, l’istruzione e i finanziamenti. Anche per questo, a maggio il presidente Xi Jinping ha lanciato la strategia detta della “doppia circolazione”, una mossa per ridurre la dipendenza dai mercati esteri sul lungo periodo. In pratica il Paese farà affidamento sulla “circolazione interna”, cioè il ciclo produzione-distribuzione-consumo che verrà spinto dall’innovazione e dai miglioramenti dell’economia.
Xi ha promesso di mettere sul piatto 1,4 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni solo per il comparto tecnologico. Come ha scritto il South China Morning Post, le autorità hanno iniziato una vasta campagna di propaganda interna intorno al concetto di «indipendenza e controllabilità». Per il prof Frank Cui dell’International New Economic Research Institute, l’obiettivo è quello di creare nei prossimi 6-7 anni un sistema capace di sostenere i tre pilastri interni: ricerca e sviluppo, manifattura, e mercato interno.
Queste strategie prevedono che governo e amministrazioni locali aumentino il sostegno alle aziende tecnologiche cinesi che usano componenti nazionali con l’obiettivo di avere una catena di forniture più controllabile, così da ridurre la dipendenza da tecnologie straniere. Esperti del settore hanno spiegato al Scmp che più un’azienda abbraccia l’autosufficienza, o viene danneggiata dalle sanzioni occidentali, più è in grado di accedere a ordini e sussidi delle autorità.
La direzione di questi investimenti è molto chiara nella testa di Bai Chunli, presidente dell’Accademia cinese delle scienze. Il 16 settembre scorso ha tenuto una conferenza stampa a Pechino spiegando che le blacklist americane rappresentano la lista delle cose da fare da parte di Pechino. L’accademia presieduta da Bai è in prima linea nel processo di innovazione. Solo nel 2019 sono partiti cinque progetti pilota incentrati sullo sviluppo di chip, software, tecnologia elettromagnetica, meccanica di fascia alta e ricerche su audio multilingua.
«La guerra tecnologica con gli Stati Uniti», ha spiegato ancora l’analista del Merics, «sta fornendo un’accelerazione agli sforzi cinesi di rendersi più indipendente e questo riguarda soprattutto le tecnologie fondative, quelle cioè che a loro volta alimentano una vasta gamma di innovazioni e in questo senso i semiconduttori sono l’esempio più chiaro». Ma la strada resta ancora molto lunga dato che per ora molte tecnologie alternative come il RISC-V o il Kunpeng di Huawei sono acerbe e non competitive.
Il rischio di due blocchi tecnologici
La spinta cinese sull’autonomia tecnologica apre scenari complessi sul futuro della tecnologia globale. Samuele Dominioni, research fellow in cybersecurity presso Ispi, ha spiegato a Linkiesta che «il rischio di una compartimentazione tecnologica è più vivo che mai. Basti pensare ad esempio alla questione del 5G dove da tempo gli Stati Uniti hanno vietato l’utilizzo di tecnologia cinese per le reti di quinta generazione».
Per Arcesati questo è uno di quei casi in cui la risposta non è “se” ma “quando”, anche se al momento «è molto difficile prevedere cosa porterà questa ristrutturazione delle supply chain». Quello che invece è certo è che la spaccatura in due sfere di influenza investirà i Paesi in via di sviluppo: «Si parla spesso in blocchi pensando all’Europa, agli Usa e alla Cina, ma secondo me è importante prestare attenzione a come le aziende cinesi lungo la Via della Seta Digitale stiano penetrando sempre di più nei Paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti».
Cosa dovrebbe fare l’Europa
In tutto questo resta la grande incognita dell’Europa. La verità è che la questione della scelta europea tra Washington e Pechino è limitante e toglie dal tavolo diverse opportunità.
«Lo spazio che l’Europa come continente può ricavarsi è dato dalla capacità di investire nella propria autonomia», ha continuato l’analista del think tank tedesco, «non significa chiudersi su di sé, ma sfruttare le risorse e le capacità tecnologiche europee per sviluppare prodotti o servizi più innovativi». La chiave di tutto quindi non è scegliere a che mercato votarsi, ma lavorare per diventare più agili tra i colossi globali.
«L’autonomia passa per la capacità di sviluppare non solo regole ma le tecnologie per le quali tali regole sono disegnate. In questo senso è positivo che la Commissione europea si stia muovendo per adottare una strategia che combini il digitale, le politiche industriali e l’antitrust. Non si tratta di diventare come la Cina copiando un modello di capitalismo di Stato, ma di creare le condizioni per le quali il settore pubblico in Europa supporta di più l’innovazione», ma non solo. Bisogna anche avere una visione più avanzata, oltre la contingenza. «Per i progetti che vengono definiti di “interesse europeo” per esempio, Bruxelles ha già derogato alcune regole in materia di aiuti di Stato per consentire l’avvio di progetti europei nei settori della microelettronica e delle batterie. Questa è la giusta direzione, altrimenti ci si trova a non investire nelle nostre aziende mentre la Cina continua a investire nelle proprie».
Dello stesso avviso è anche Dominioni: «La Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha fatto della sovranità digitale uno dei concetti chiave per la crescita dell’Ue nei prossimi anni. Uno dei settori in cui l’Europa può sviluppare una propria autonomia e una superiorità tecnologica è l’ambito dei super computer e nei computer quantistici. Durante l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione», ha concluso, «si è parlato di una proposta di finanziare con 8 miliardi di euro la ricerca e l’innovazione in questi campi per i prossimi anni».
Tutto questo però non basta se prima non si lavora anche alla difesa. L’Europa deve infatti lavorare per migliorare la tutela delle tecnologie critiche. Al momento, spiega ancora Arcesati «l’Europa si trova a non avere le proprie regole per proteggere le tecnologie emergenti». Non solo con una limitazione degli investimenti diretti cinesi nel mercato unico europeo, tema al centro degli ultimi colloqui tra Pechino e Bruxelles, ma anche con un controllo stringente di alcune tipologie di esportazioni.
C’è infine un ultimo aspetto che molti addetti ai lavori continuano a sottolineare: la necessità di costruire alleanze con altre economie liberali. Per Arcesati questo non deve però configurarsi con un mero contenimento tecnologico della Cina come vorrebbero gli americani: «L’Europa non ha interesse a contenere lo sviluppo dell’ecosistema tecnologico cinese di per sé», questo per il mutuo interesse in molti altri campi come la salute o l’emergenza climatica. «Detto questo», conclude l’analista, «ci sono degli aspetti delle politiche cinesi che cozzano con quelli che sono i principi e gli standard europei e su questo l’Europa deve ancora articolare una risposta. E lo deve fare con i partner che hanno più esperienza a destreggiarsi al nesso tra tecnologia, economia e sicurezza nazionale, come Giappone, Corea del Sud e anche Taiwan».