Nei piani, il 14 settembre a Lipsia doveva essere un giorno di svolta per le relazioni tra Unione europea e Cina. Ma con ogni probabilità non sarà così. Mesi fa era previsto che nella città tedesca si tenesse un grande summit per suggellare un’intesa, cercata negli ultimi sette anni, su come regolare gli investimenti tra le due regioni. Un piano per trovare una quadra sull’accesso ai rispettivi mercati, ma alla fine l’incontro è stato ridotto a una videoconferenza di un paio d’ore. Ufficialmente lo stop arriva a causa della pandemia, ma dietro ci sono ragioni più profonde. Quello che è certo è che al momento il flop pesa soprattutto sulla Cina.
Ma cos’è andato storto? L’intesa doveva risolvere le deformazioni intorno agli investimenti cercando di creare una certa simmetria tra le parti. Aziende e operatori europei non hanno infatti lo stesso accesso al mercato cinese garantito dalle regole Ue ai capitali provenienti dalla Repubblica popolare. L’idea alla base era quella di superare gli accordi bilaterali dei vari Stati con un’intesa complessiva denominata Cai (Comprehensive Agreement on Investment). I lavori sul Cai sono partiti nel 2013, ma i passi avanti significativi soprattutto da parte cinese non sono mai arrivati.
Sulla carta, l’accordo prevederebbe la riduzione o l’eliminazione di barriere all’ingresso del mercato cinese e la garanzia di una competizione paritaria al suo interno per società e investitori europei difronte ad aziende nazionali cinesi o di Paesi terzi. Il punto è che l’intesa non è mai stata vicina, anche prima della pandemia. Bruxelles da un lato denuncia le difficoltà ad ottenere aperture, mentre dall’altro Pechino si lamenta delle strette che l’Ue vorrebbe introdurre sulle aziende troppo legate al governo del Partito comunista. Idealmente l’accordo farebbe comodo a tutti, ma l’Europa ha dimostrato di non voler cedere eccessivamente e di essere addirittura disposta a farlo saltare.
Il viaggio fallimentare di Wang
Il fatto che il Cai sia a un punto morto rappresenta molto bene come l’Europa stia cercando un nuovo modo, meno accondiscendente, di rapportarsi alla Cina. Che non tirasse una buona aria per Pechino lo si era capito già a inizio mese, con la visita del ministro degli Esteri Wang Yi in Europa. Il tour tra Paesi Bassi, Francia, Germania e Norvegia ha mostrato un’Europa meno malleabile. «Indubbiamente da parte dei Paesi europei c’è stata una risposta più vocale per quanto riguarda temi che solitamente ricoprono un ruolo marginale come i diritti umani», spiega a Linkiesta Francesca Ghiretti, analista e ricercatrice in Asia studies dello Iai, «dopo Hong Kong e lo Xinjiang l’Europa si trova a essere più assertiva rispetto a queste situazioni».
Wang ha trovato forti resistenze soprattutto in Francia e Germania. A Parigi il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso forti preoccupazioni sul fronte dei diritti umani, mentre a Berlino si è consumato un vero e proprio duello tra il ministro cinese e il suo omologo tedesco Heiko Maas intorno al caso Taiwan-Repubblica Ceca. Persino l’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell ha accolto la visita di Wang con un’intervista alla stampa francese in cui denunciava le velleità imperialistiche della Cina.
Verso una strategia per contenere la Cina
Nel mondo diplomatico europeo c’è fermento, soprattutto lungo l’asse franco-tedesco. Alcuni funzionari hanno raccontato a Noah Barkin, giornalista e analista per il German Marshall Fund, che lo scivolamento assertivo europeo continua a pieno regime. «Per molto tempo», ha spiegato un funzionario, «abbiamo considerato tutte le questioni intorno alla Cina – 5G, Commercio o Mar Cinese Meridionale – come fatti distinti. Ma ora è necessario avere la visione di insieme e sviluppare una strategia globale».
La verità, ha scritto Andreas Kluth su Bloomberg, è che ormai l’elenco dei punti oscuri cinesi è diventato troppo lungo. Va dalle violazioni in Xinjiang al dimenticato Tibet, passando per l’aggressività contro Taiwan e l’approccio assertivo della nuova generazione di diplomatici cinesi fino alla stretta sulle libertà di Hong Kong. Il tutto è stato poi infiammato dall’epidemia di coronavirus. «Il cambiamento della posizione europea non è momentaneo», spiega l’analista dello Iai, «è una cosa che si sviluppa da anni ed è il risultato di una serie di delusioni».
Le nuove consapevolezze europee
Le nuove tensioni sono strettamente collegate alle frustrazioni economiche e commerciali di lungo corso. Molti Paesi dell’Unione sono stanchi delle aziende cinesi di proprietà statale, o guidate direttamente dal Pcc, che accedono al mercato unico distorcendo la concorrenza e lanciando operazioni predatorie sulle tecnologie. Il 7 settembre scorso l’European Council on Foreign Relations ha pubblicato un dossier dal titolo inequivocabile: “The new China consensus: How Europe is growing wary of Beijing”. L’Ecfr ha tenuto diverse tavole rotonde con analisti, funzionari e parlamentari dei vari Stati membri, arrivando alla conclusione che l’Europa sta lavorando per ridefinire la sua policy cinese.
Pur con differenze da Stato a Stato e crescenti diffidenze per un peso eccessivo di Parigi e Berlino sul dossier, la ricerca mostra come vi sia un consenso sul fatto che l’Unione non sia attrezzata in modo adeguato per fronteggiare Pechino. Lo scorso anno nello Strategic outlook della Commissione Ue sul rapporto Cina-Ue si rimarcava come Pechino sia allo stesso tempo un rivale e un partner per l’Europa. Oggi, ha scritto l’Efcr, questa visione è condivisa in tutti gli stati membri.
C’è infatti un diffuso senso di squilibrio economico, delusione e disagio rispetto a Pechino e allo stesso tempo c’è anche una presa di coscienza sulla necessità di limitare gli investimenti cinesi nei settori strategici. Molti paesi si lamentano anche per la mancanza di reali benefici economici negli attuali investimenti cinesi. Il Cai in questo senso puntava a due obiettivi: ottenere maggiori benefici dall’economia cinese grazie a clausole di parità senza accrescere la dipendenza da Pechino.
I tre modi per relazionarsi con Pechino
Bruxelles e le varie capitali dell’Unione devono quindi lavorare attivamente su come governare il rapporto con la Cina, senza però dimenticare un concetto fondamentale: è difficile fare a meno del Celeste impero. «Il cuore del problema», aggiunge Ghiretti, «è che la Cina è un’enorme economia ed è una potenza globale e di conseguenza è un reale competitore del sistema occidentale perché ha un peso nel momento in cui si tratta di prendere decisioni a livello internazionale». L’Europa sa bene che per molte iniziative non può prescindere da Pechino, come nel caso della lotta al cambiamento climatico. « Come altre potenze, la Cina proietta all’esterno la propria influenza, quindi è inevitabile dover tenere conto della sua esistenza. Altrimenti non è possibile agire efficacemente».
Fissato questo punto, le azioni su cui l’Europa sta lavorando sono diverse. Il congelamento del Cai sottintende che l’Ue è pronta a usare il proprio potere di mercato in modo più assertivo, non temendo eccessivamente le eventuali contromisure cinesi. Su questo ovviamente i Paesi partecipano con entusiasmi diversi: sempre secondo l’Ecfr, Ungheria, Olanda, Danimarca, Estonia e Finlandia preferirebbero evitare limitazioni. Ma gli altri chiedono di intervenire almeno nei settori chiave. Le fonti diplomatiche sentite da Barkin hanno confermato che all’orizzonte potrebbe esserci una limitazione nell’accesso al mercato europeo per aziende e capitali cinesi.
Già a giugno la Commissione europea aveva annunciato l’adozione di un libro bianco per volontà della commissaria per la concorrenza Margrethe Vestager sulla necessità di combattere gli effetti distorsivi dei sussidi esteri sul mercato unico europeo. Per l’Europa questo rappresenterebbe una presa di coscienza importante sul fatto che spesso si sopravvaluta la dipendenza Ue dal mercato cinese, come sottolineava a Linkiesta l’analista tedesca Mareike Ohlberg.
Il secondo fronte che l’Ue potrebbe aprire riguarda invece le ingerenze che Pechino porta avanti sul continente. Come ha ricordato lo stesso Barkin ad agosto l’Australian Strategic Policy Institute ha pubblicato un dossier sulle operazioni globali di reclutamento dei talenti con lo scopo di acquisire conoscenze tecnologiche da parte della Cina. Secondo la ricerca tra i primi dieci paesi che ospitano “stazioni” di reclutamento cinesi quattro sono europei: Germania (al secondo posto nel mondo con 57 centri), Regno Unito, Francia e Svezia. E questo, insieme al contestato dossier del servizio europeo per l’azione esterna su disinformazione e pandemia, potrebbe portare presto a nuovi controlli e nuove strette.
Una terza strategia che verrà incrementata è quella di cercare un rapporto più stretto con altri attori che subiscono la battaglia a distanza tra Stati Uniti e Cina. Per Ghiretti una mossa intelligente per l’Europa sarebbe quella di «coordinarsi coi middle power, come Giappone, Sud Corea, Australia. Cioè imparare e collaborare con quegli attori che sanno cosa vuol dire avere un potere limitato a livello anche negoziale e sanno cosa vuol dire trovarsi stretti in mezzo a due potenze». «Secondo me», ha concluso l’analista, «in questo caso l’Europa ha ottime possibilità anche di uscirne egregiamente». La strada è lunga ma gli accordi di libero scambio firmati con Giappone e Vietnam negli scorsi anni vanno in questa direzione.
La ricerca di nuovi partner asiatici potrebbe toccare anche il tema della sicurezza. La Germania, ad esempio, il 1 settembre ha annunciato la sua nuova policy per l’indo-pacifico, diventando il secondo Paese europeo, dopo la Francia, ad avere una strategia per la regione. Un segnale evidente che una fetta di Europa sta lavorando attivamente per diversificare i suoi partner e per diluire il potere che Pechino può avere su di lei.