Piano a dire che il food delivery salverà i ristoranti. Certo, in questi giorni stiamo raccontando tante proposte interessanti e le soluzioni ben studiate. Certo, il boom c’è stato se si guarda ai grandi numeri. L’Osservatorio eCommerce B2C del Politecnico di Milano quantifica in 863 milioni di euro il valore degli acquisti in food delivery in Italia nel 2020 (dati consolidati fino al 30 settembre, a cui si sommano le previsioni per l’ultimo trimestre). Nel 2019 il valore era di 592 milioni, il dato 2020 segna dunque un significativo +46%. La forte crescita è confermata dai dati delle singole piattaforme: aumentano vertiginosamente ordini e città toccate dal servizio.
Però conviene guardare bene dentro al packaging ricercato con la porzione di pollo tandoori o di empanadas di carne, o nella bowl vegetariana che ci arriva a casa o in ufficio: c’è un piccolo mondo di costi che meritano una riflessione. Prima ancora, nel retrobottega, il ristoratore deve porsi le giuste domande per decidere se attivare un servizio di consegne.
Partiamo dai costi: dipende da chi consegna. I locali che si affidano ai grandi del delivery (Glovo, Deliveroo, Just Eat, che forniscono un pacchetto completo con i loro rider e il loro sistema di gestione ordini) pagano una commissione agli operatori. «Può arrivare al 30%», spiega a Gastronomika Giacomo Pini, consulente nel settore della ristorazione. È una cifra indicativa, seppur confermata da molti gestori di ristoranti. Attenzione: la commissione è più bassa (stimiamo un 15%) se l’accordo prevede la sola presenza del ristorante sulla app e sul sito – Just Eat lavora prevalentemente così – ma con fattorini gestiti in proprio dal locale. Più in generale «quella commissione non è tutta costo», spiega Marco Bordoni della società di consulenza Kent. «Una parte è da considerarsi investimento di marketing: il ristorante è su una vetrina digitale conosciuta, presente su milioni di smartphone, che gli conferisce visibilità e porta ordini». Ogni locale negozia singolarmente le condizioni economiche del servizio con la App di delivery che ha scelto (spesso più di una). Dipende anche dalla forza del ristorante, dal peso del brand: se è di grande richiamo, può essere un affare per la piattaforma di delivery averlo tra i propri partner. Di conseguenza la commissione si abbasserà. Avremo un 25%, 20%, 18%. Con i grandi nomi si ribalta tutto, sono i giganti digitali ad attrarli con offerte commerciali vantaggiose. Se invece la forza contrattuale sta tutta dalla parte del fornitore di servizi, toccherà al ristoratore cedere.
Con i ristoranti messi in croce dalla pandemia e dalla chiusura imposta alle 18 (la cena pesa per il 60-70% dei ricavi, e se parliamo di alta gamma o stellato per la quasi totalità), la lista dei delivery che si offrono di abbassare o azzerare le commissioni per supportarli si allunga di giorno in giorno. Il tema è sul tavolo, in queste ore, di tutti i grandi del cibo a domicilio. Dopo Just Eat – che sconta le commissioni di servizio del 25% ai 5.000 ristoratori che utilizzano i suoi fattorini e le azzera per un mese ai nuovi clienti – anche Glovo ha annunciato misure simili. «Abbiamo deciso di azzerare le commissioni fino alla fine dell’anno per tutti gli esercenti che faranno richiesta di aderire alla piattaforma», ha detto Elisa Pagliarani, General Manager Glovo Italia. Glovo ha anche attivato un servizio – sempre a costo di consegna zero per i clienti e commissioni zero per i ristoranti – di take away: si prenota il piatto come di consueto, sulla app, ma lo si ritira in loco.
Altro capitolo, sempre sui costi: ci sono i ristoranti che si arrangiano. Che mettono in piedi un servizio di consegna organizzato in proprio. Sul mercato si trovano proposte per attivare la app personalizzata del proprio ristorante, corredata da un software gestionale per gli ordini. Occhio alle altre voci di costo. Con Marco Bordoni di Kent simuliamo uno specchietto: «Possiamo ipotizzare che, oltre alla materia prima per preparare i piatti, servano due persone per le consegne, il noleggio dei mezzi e il rifornimento, un operatore dedicato alla linea delivery in cucina, un packaging studiato ad hoc per i piatti da portare a casa dei clienti. Si salva chi riesce ad ammortizzare alcuni di questi costi usando personale che già ha, e che è fermo per la minore attività di sala del ristorante». Semplice, apparentemente. Ma c’è di più.
Veniamo alle domande che tutti i ristoratori devono porsi prima di sbarcare nel dorato mondo delle consegne. «Pensiamo a ristoranti, pizzerie, trattorie che costituiscono la quota più importante della ristorazione italiana. Se con le consegne producono intorno al 20-25% dei ricavi che avevano a pieno regime», dice ancora l’esperto Pini, «allora ha senso. Sotto, meglio lasciar perdere». A contare tanto è il tipo di offerta del locale, assieme alla struttura dei suoi costi. «Le consegne, per la pizzeria con un pizzaiolo al forno e la moglie alla cassa, sono la normalità. Per una catena monoprodotto (le hamburgherie, i ristoranti single dish, quelli con una carta cortissima di cucina etnica, per esempio) sono avvantaggiati, anzi naturalmente predisposti perché il delivery funzioni bene: hanno organizzazione efficiente, magazzino agile, procedure standardizzate e, nella maggior parte dei casi, piatti che reggono al trasporto. Ma l’imprenditore indipendente che deve la sua fortuna a una cucina complessa, come fa? Il filetto al pepe verde, il risotto con l’osso buco, il piatto di pesce elaborato, come li trasforma in portate adatte a veicolare il ristorante a casa del cliente? Perché di questo parliamo, altrimenti è una gastronomia d’asporto. E il ristorante non è quella cosa lì».
La riorganizzazione della cucina, la revisione del menu perché abbia senso per il delivery, la possibilità di alzare lo scontrino medio vendendo prodotti a corredo del piatto – come vino o dessert – sono tutte voci fondamentali. Se il ristorante pensa di poter tenere accesa la macchina dei suoi costi fissi senza considerare questi cambiamenti, le consegne non lo salveranno. Per fortuna non siamo più a marzo, al primo lockdown e agli esperimenti inconsapevoli. «Allora era improvvisazione», chiude Pini, «adesso diventa una scelta quasi permanente».