Thomas Leoncini: Non esiste Oriente del terzo millennio senza ikigai. Questa parola è così citata da essere diventata uno slogan (e riuscire a costruirlo con sei lettere è il sogno di ogni comunicatore del mondo).
Prendiamo però il senso profondo di questa parola: dal giapponese può essere tradotta letteralmente come “qualcosa per cui vivere”. Si può quindi pensare all’ikigai senza relazionarlo al senso del presente?
L’intima motivazione a cui affidiamo la nostra ragione d’essere passa inevitabilmente attraverso la cognizione del presente, la capacità di vivere consapevoli dell’attimo all’interno dell’attimo stesso. La paura vive solo nel futuro, radicarci nel presente è l’antivirus per la paura.
Anche quando saliamo su un autobus siamo abituati a vivere dell’immagine del futuro immediato, piuttosto che abitare l’istante, qualunque esso sia.
Scrutiamo gli altri come possibili avversari: potrebbero rubarci il posto a sedere, potrebbero addirittura sternutirci in faccia e attaccarci un virus incurabile, oppure derubarci, oppure potrebbero aver nascosto una bomba sotto alla giacca e farci saltare tutti per aria.
Pensiamo a questo perché siamo predisposti, soprattutto noi occidentali, ad immaginarci un futuro immediato tendenzialmente pessimistico, ipotizzando che qualcosa potrebbe andare per il verso sbagliato.
Eppure siamo sempre noi, quelli che poi salgono sulla moto o entrano nell’auto e in pochi secondi si scoprono capaci di andare quasi in estasi all’idea di accelerare in un rettilineo sentendo la vibrazione della velocità.
Accelerando (grazie alla tecnologia di un’auto o di una moto) creiamo una discontinuità del tempo, un frammento a se stante, un attimo assoluto in cui non esiste più nessuno all’infuori dell’io impresso nel presente, un io istintivo che vuole solo sopravvivere, capace di distaccare il corpo dalla psiche.
C’è prima l’io, poi il pericolo, non viceversa.
È la sospensione del giudizio.
Esattamente l’opposto di ciò che ci succede quando saliamo sull’autobus.
Sentendo la velocità della nostra auto in corsa siamo corpo e il condizionamento è quasi solo istintivo. Così il cervello si droga col corpo, in modo assolutamente opposto alla razionalità: risponde solo ai suoi comandi.
Tutte le paure consce dell’autobus in quell’attimo svaniscono, passati da un habitat decisamente sicuro (come un luogo pubblico) ad un luogo privato e decisamente più pericoloso come l’auto o la moto che sta sfrecciando.
Ipocondriaci a tempo flessibile, ansiosi a ritmi alternati e soprattutto assolutamente illogici e incerti.
La velocità è la parola chiave.
Forse in Occidente è la velocità che ci fa prendere possesso del presente. Stiamo abituando così i nostri neuroni.
Il contatto con questo io istintivo è l’esaltazione del presente per molte persone occidentali.
Il presente come accelerazione e come discontinuità, piuttosto che come lentezza e continuità.
Vivere l’ikigai in amore vorrebbe dire quindi per prima cosa vivere il presente di ogni relazione che riguarda l’amore (che sia l’amore sentimentale, di famiglia, l’amore inteso come prendersi cura dell’altro o del più debole).
Significa portare se stessi a correre come l’accelerazione dell’amore stesso chiede.
L’accelerazione dell’amore è stata messa però a dura prova nell’ultimo periodo: la pandemia globale ha stravolto le abitudini dell’individualismo. La pandemia ci fa sentire per la prima volta comunità di persone, mai al sicuro dal nemico invisibile, mai da soli in questa guerra in cui il “noi” sono gli esseri umani, prima ancora di qualsiasi diversità etnica.
Che impatto credi abbia avuto il coronavirus sul concetto di amore? Siamo all’anno zero anche dell’amore?
Ken Mogi: È importante parlare d’amore in tempi come questi, in cui la globalizzazione provoca grande stress mentale e spinge alcuni ad allontanarsi dall’amore, mentre altri ne vengono attratti sempre di più, quasi fosse un possibile «antidoto» alle disgrazie e alle preoccupazioni dell’epoca contemporanea.
Viviamo ormai in un villaggio globale dove la competizione sembra farla da padrona in molti contesti. Tuttavia, come dici tu, esistono delle alternative e l’ikigai è uno dei concetti chiave per comprendere i diversi modi che abbiamo di organizzare con armonia le nostre vite, la società e l’amore.
L’ikigai è qualcosa di così naturale per un giapponese che quando si è capito che questa semplice parola era sul punto di diventare un termine alla moda è stata una vera sorpresa, anche per me.
Di recente ho visto il film “I due papi”, magistralmente interpretato da Anthony Hopkins e Jonathan Pryce. Questo capolavoro mi ha portato a riflettere sull’ikigai di un papa. Il santo padre è il capo spirituale della Chiesa cattolica, discendente diretto di san Pietro. Le implicazioni culturali e storiche sono enormi e caricano di un pesante fardello le spalle del papa.
D’altra parte il pontefice, come individuo, è aperto alle gioie e ai dispiaceri che gli vengono incontro, come i milioni di individui che in tutto il mondo si rivolgono a lui come guida spirituale.
Prendere in considerazione l’ikigai del papa, gli alti e bassi nel suo quotidiano portare a termine i propri doveri, a mio parere è un bel gioco di equilibrio che richiede tutto ciò che è umano in noi, in un’epoca in cui i problemi che vanno dalla disparità sociale al riscaldamento globale scuotono le fondamenta della nostra stessa esistenza.
La pandemia di coronavirus ci sta facendo riflettere sull’essenza dell’amore a un livello più profondo.
In fin dei conti ci amiamo perché siamo mortali. Se la vita fosse eterna, il nostro amore gli uni per gli altri non sarebbe così appassionato.
Un’epoca di difficoltà globale è anche un’opportunità per constatare il potere dell’amore. La necessità di autoisolarci ci ha reso consci del fatto che, in quanto esseri umani, abbiamo bisogno gli uni degli altri, in carne e spirito.
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale l’amore acquisisce una posizione sempre più centrale nell’ambito dei valori umani.
Inutile dire che l’amore è un argomento molto studiato nell’ambito delle neuroscienze e delle scienze cognitive. Una questione fondamentale, correlata all’amore, è l’altruismo, cioè il fatto che un individuo sia pronto a sacrificare il proprio bene, o a volte addirittura la propria vita, per quello degli altri. È provato che esistono attività neuronali nel cervello deputate all’altruismo. Negli animali sociali, come l’uomo, la consapevolezza e il comportamento altruistico stanno alla base del sostentamento della famiglia e della comunità, e alimentano la fiducia.
Sono molte le questioni correlate all’amore in contesto scientifico. L’amore, e soprattutto l’amore sentimentale, può essere affrontato in termini di scelta del partner, che assicura la funzione biologica fondamentale dal punto di vista darwiniano.
Le strategie dell’amore si possono analizzare in termini di teoria dei giochi. John Nash formulò il noto teorema, che gli valse il premio Nobel, dell’«equilibrio di Nash» studiando le strategie di ricerca di un partner.
Le strategie d’amore possono essere analizzate numericamente, attraverso inferenze bayesiane, e ottimizzate utilizzando l’intelligenza artificiale, se necessario.
Considerato da questa prospettiva l’amore potrebbe essere analizzato da un punto di vista tecnico e razionale, che avrebbe valori universali indipendenti da differenze locali.
L’amore, in questa accezione, risiederebbe nell’ambito della civiltà, anziché della cultura.
È interessante notare come nella cultura giapponese, per tradizione, nell’antichità non esistessero parole corrispondenti ad «amore», per lo meno in senso sentimentale.
L’autore di romanzi giapponese Sōseki Natsume (1867-1916) introdusse il genere nel modernismo ed è considerato uno dei maggiori, se non addirittura il maggiore romanziere nel Giappone moderno e successore di Murasaki Shikibu (973-1031), autrice di Storia di Genji.
Sebbene Natsume fosse un intellettuale fortemente influenzato dalla cultura occidentale (studiò letteratura inglese per due anni nella Londra vittoriana) continuò a farsi portavoce dei valori e della cultura tradizionale giapponese, per cui i suoi romanzi furono apprezzati sia in Giappone che al di fuori.
È famosa la sua trattazione su come tradurre «I love you» in giapponese. Nella tradizione giapponese chi si ama non ha l’abitudine di esternare il proprio affetto in un modo così esplicito.
Quando gli amanti si comunicano il proprio sentimento lo fanno in modi più sottili, per esempio scambiandosi waka, poesie composte seguendo raffinate tecniche letterarie.
Natsume trovò una traduzione giapponese davvero originale e ispirata dell’inglese «I love you», che può essere resa con qualcosa del tipo «The moon is pretty, isn’t it?» (La luna è bella, no?). E il fatto che questa particolare traduzione risuonasse nei cuori di molti giapponesi è testimoniato dall’uso frequente che se ne fa ancora nei social media.
Immaginiamo per esempio due innamorati che passeggiano di sera, lungo un fiume. E supponiamo che tocchi al ragazzo esprimere il suo affetto alla ragazza. Non si sono ancora dichiarati esplicitamente il loro amore, perciò il ragazzo deve trovare un modo ingegnoso per svelare il suo sentimento all’amata. Guarda il cielo e vede una luna molto bella. È talmente preso dall’amore per la ragazza e sopraffatto dalla bellezza della natura che dice: «La luna è bella, no?». La ragazza risponde: «Sì», e apprezzando la bellezza della luna, sente anche che il ragazzo la ama, inferendolo dal fatto che lui vuole condividere con lei un momento così effimero.
L’amore, nel contesto giapponese, è pervaso dall’effimero e dalla vulnerabilità della vita. Sarebbe interessante paragonare il concetto giapponese di amore con il suo omologo occidentale.
In questo caso non sto necessariamente limitando la discussione all’amore sentimentale. Anche l’amore verso Dio è un concetto da prendere in considerazione, nonostante viviamo in un’epoca in cui le persone sono maggiormente propense verso l’ateismo. In Giappone, per tradizione, si ritiene che Dio risieda in tutte le cose.
La frase «otto milioni di dei» esprime la credenza nipponica che vi siano molte entità spirituali nel mondo, non solo negli esseri umani, ma anche nelle cose viventi e non viventi.
Nella tradizione monoteista occidentale, al contrario, esiste un solo Dio onnipotente che ha creato l’intero universo. La tradizione monoteista ha quindi portato all’idea che tutto nell’universo sia stato creato seguendo il disegno di Dio (la legge naturale), conducendo infine alla formulazione dei princìpi della dinamica newtoniani.
Nel contesto contemporaneo, la scienza può essere considerata figlia della tradizione monoteista, a prescindere da quanto possano sembrare lontane per questioni quali l’origine della moralità.
L’amore ballerà presto un tango con l’intelligenza artificiale? La coscienza umana avrà ancora bisogno dell’amore di Dio?
da “Ikigai in Love. L’amore ai tempi di se stessi. Una via orientale al mondo che cambia”, di Ken Yogi e Thomas Leoncini, Solferino editore, 2020