«I want my damn respect, too». Anch’io voglio il mio dannato rispetto. Nella prima intervista dopo aver condotto al titolo Nba i Los Angeles Lakers, LeBron James ha pronunciato una frase che somiglia molto al grido di chi non ne può più di non essere considerato il Goat – Greatest of all time – nonostante tutto. Un appello che racconta molto della percezione di opinione pubblica e stampa nei suoi confronti.
Quello con i Lakers è il suo quarto anello con tre squadre diverse, accompagnato da quattro premi di mvp delle Finals. Una vittoria arrivata alla sua 17esima stagione da professionista, nella gara numero 260 ai playoff (record di ogni epoca), chiusa con la 28esima tripla doppia in una serie finale. In più sarebbe anche il miglior marcatore della storia dei playoff, l’uomo con il maggior numero di vittorie nei playoff (162), in scia per diventare il numero uno praticamente in ogni voce statistica rilevante.
E non sono tanto i numeri a descrivere la sua legacy, quanto l’aver attraversato le epoche mantenendo sempre un ruolo da protagonista, essere cresciuto come giocatore seguendo le evoluzioni del gioco, aver dominato a Cleveland come a Miami come a Los Angeles senza fare troppe distinzioni. Un giocatore trasversale per definizione, anzi, un giocatore oltre: oltre il concetto di ruolo; oltre il livello di compagni, allenatori, avversari; oltre ogni categorizzazione.
Ma per qualche ragione ancora si fa fatica a considerarlo il migliore di sempre. E un gigante del suo calibro non vuole e non può essere costretto al secondo posto solamente perché il primato spetta di diritto al fantasma con il 23 che ha giocato a Chicago, come lui stesso aveva definito Michael Jordan dopo la vittoria del 2016.
Il dibattito si è riacceso anche nell’ultima serie finale, con LeBron James che ha passato un pallone per un tiro con tre metri di spazio a Danny Green a pochi secondi dalla sirena conclusiva. L’errore di Green ha poi portato gli hater di LBJ a rimarcare la differenza con Jordan, il quale «avrebbe avuto il coraggio di prendere l’ultimo tiro». Dimenticando forse che i titoli dei Chicago Bulls sono arrivati anche grazie ai tiri preziosi di giocatori secondari come John Paxson e Steve Kerr, a cui lo stesso Jordan si affidava volentieri nei momenti decisivi.
Quella di LeBron è una condizione molto simile a quella che sta vivendo Lewis Hamilton. Appena qualche ora prima del titolo dei Lakers il pilota britannico aveva vinto a Eifel il suo 91esimo Gp in Formula 1, pareggiando il conto con Michael Schumacher. Eppure, anche per lui, il suo predecessore appare una chimera, un entità superiore che non potrà mai essere raggiunta, almeno per molti appassionati e addetti ai lavori. E qui i discorsi per scoraggiare la candidatura di Hamilton a miglior pilota di sempre riguardano l’assenza di competizione, sia tra i piloti sia tra le vetture.
I casi di Hamilton e LeBron sono esempi attuali e concreti di come nello sport, e non solo, si arrivi a costruire narrazioni basate su rivalità mai esistite: non potendo trovare ai campioni di oggi degni avversari si sceglie di cercarli nel passato. E nel farlo si finisce molto spesso per esprimere un giudizio di valore distorto, che porta a dire che «prima era meglio» e che chi viene dopo non sarà mai all’altezza degli idoli del passato.
«Saremo sempre portati a privilegiare i campioni degli anni della nostra giovinezza. Perché sono stati i più belli sotto molti punti di vista, almeno per la condizione fisica. Allora quegli atleti ci ricordano tempi che il più delle volte sono allegri, spensierati», spiega a Linkiesta il giornalista Paolo Condò.
Nel racconto sportivo i confronti con il passato tornano sempre. Condò però intende fare una distinzione preliminare. «Fare confronti tra sportivi di epoche diverse per un professionista come me sarebbe un errore, perché le condizioni sono troppo differenti per poter dare un parere obiettivo. Qualcuno ha azzardato anche un confronto tra Muhammad Ali e Michael Jordan: come si fa a paragonare un pugile con un cestista? Poi però da appassionati del settore questo tipo di confronto è probabilmente l’aspetto più divertente. Quindi non va denigrato del tutto, non possiamo snobbarlo», aggiunge.
L’esempio di Condò arriva dal mondo del tennis: «Per me il più grande tennista di sempre resterà John McEnroe: aveva quella carica ribellista dentro di sé che nei miei vent’anni apprezzavo molto. Ricordo che provavo a servire mettendomi in diagonale rispetto alla linea di fondo, come faceva lui, con risultati pessimi ovviamente. Poi so bene che Federer, Nadal e Djokovic saranno ricordati per le loro numerose vittorie, però nel mio Pantheon John resterà sempre il numero uno».
Proprio dal tennis arriva un’altra narrazione che rischia di sminuire le imprese di un campione. La stessa domenica in cui LeBron e Hamilton vincevano in Nba e in F1, Rafael Nadal vinceva in tre set la finale di Rolad Garros contro Novak Djokovic. Una partita in cui è sembrato che la vittoria andasse dallo spagnolo più che il contrario, come se gli spettasse a priori.
Con quel successo Nadal ha esteso il suo dominio sul Roland Garros, trionfando in Francia per la tredicesima volta, eguagliando il primato di ogni epoca – venti titoli dello Slam – del rivale di sempre Roger Federer. Ma l’ombra del campione di Basilea sembra sempre lì, pronta a oscurarlo anche quando il conto degli Slam dice che la bilancia è in equilibrio.
C’è un pizzico di nostalgia che porta questi bias cognitivi. Lo spiega a Linkiesta lo psicanalista Stefano Pozzoli, che insegna psicologia dello sport all’Università di Pavia: «La nostalgia ci porta a idealizzare il passato, così il ricordo viene distorto. Non a caso i marinai greci dicevano di non guardare indietro durante la partenza altrimenti ci si ammala».
Il primo amore di cui parlava Condò in riferimento a McEnroe è, appunto, uno degli elementi che rischia di distorcere il ricordo. «Il fatto di essere il primo atleta a mostrarci qualcosa di affascinante, come gesti tecnici di grande stile, vittorie epiche, prodezze atletiche, può avere un grande potere di seduzione», dice Pozzoli.
Ma non solo. Una volta che si applica un’etichetta rimuoverla è sempre più difficile. Vale sia in positivo sia in negativo. «Etichettare – dice Pozzoli – ha un grande condizionamento sull’individuo e sulla massa, perché è rassicurante, è una certezza. Non ci costringe a pensare cose differenti. Se consideriamo uno sportivo il più grande di sempre ci fa comodo che rimanga tale. Anche la partita più bella del mondo: se guardiamo Italia-Germania 4-3 con gli occhi di oggi potremmo dire che non è granché complessivamente. Però abbiamo bisogno di dire che è la più bella della storia. La nostra mente ha bisogno di ordinare, di etichettare, per fare ordine».
In alcuni casi il momento storico in cui si compie un’impresa sportiva può essere la scintilla che avvia un legame imperituro: è il caso della vittoria dell’Argentina sull’Inghilterra ai Mondiali del 1986, poco dopo la Guerra delle Falkland. Quella vittoria dal sapore di rivalsa ha contribuito a rendere il Mondiale vinto dall’Argentina speciale, facendo sì che Maradona resti sempre un gradino sopra Messi per gran parte degli argentini, qualunque cosa accada.
Il paragone tra Maradona e Messi è un altro confronto tra due giganti del passato e del presente: due giocatori che non sono mai stati vicini su un campo da calcio se non quando uno era allenatore dell’altro in Nazionale.
È come se lo sport avesse bisogno di costruire una narrazione dualistica. «Lo sport è confronto», sottolinea Paolo Condò. «Quando c’è una rivalità fatalmente il livello della competizione, quindi anche del pathos, si alza», dice aggiungendo poi un aneddoto dal mondo della Nba – una lega che sui dualismi tra campioni ha costruito la sua epica.
«In una vecchia intervista – racconta – Larry Bird diceva di trascorrere l’estate nella sua casa del Kentucky, dove ogni mattina si allenava facendo 700 tiri. Poi puntualmente, dopo l’ultimo, pensava che nello stesso momento Magic Johnson ne stesse facendo 800. Così riprendeva e ne metteva altri 200. Perché questa rivalità serve prima di tutto a loro, spinge più in là il livello delle prestazioni: sappiamo che i grandi campioni che durano nel tempo sono quelli in grado di trovare motivazioni ovunque. E più trovi avversari forti che ti stimolano e più sarà facile trovare motivazioni. Come il miglior LeBron James, che ha vinto a Cleveland contro i Golden State Warriors, spingendosi oltre ogni limite per battere un avversario pressoché imbattibile».
E quando nel presente non c’è un avversario all’altezza del campione di turno si sfogliano gli archivi e si crea ad arte la rivalità migliore con il passato. In questo giocano un ruolo fondamentale anche letteratura, cinema, televisione, che condizionano le percezioni dell’opinione pubblica.
Lo spiega a Linkiesta Alessandro Gandini, professore di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Milano: «La nostalgia è un sentimento incredibilmente facile da vendere. Soprattutto con gli atleti del passato. Si pensi alle tante pagine sui social che rimandano ai calciatori della vecchia generazione e non a caso hanno nomi come “Operazione Nostalgia”. Oppure “The Last Dance”, che ha avuto un successo incredibile: intanto costruisce una certa mitologia, quindi un bel racconto; poi parla a un pubblico tra i 30 e i 40 anni, che inizia a sentire di non essere più la generazione “giovane”, facendolo tornare con la mente agli anni adolescenziali; poi c’è un motivo più pragmatico, di marketing, perché quel pubblico è, per fascia d’età e non solo, l’utente medio di Netflix».
Se un prodotto come “The Last Dance” aiuta a incollare allo schermo gli amanti del basket e non solo raccontando le gesta di Michael Jordan negli anni ‘90, sui giornali e nei media tradizionali è più difficile che si costruisca una chiave di lettura statica, immobile e nostalgica per cui il passato è sempre meglio. Insomma, non c’è necessariamente una vena conservatrice.
«Per un professionista che deve raccontare lo sport – dice a Linkiesta la sociologa dei mass media Lauren Smith – il fatto che ci sia discussione, rivalità, anche acredine tra gli appassionati, è importante. Perché crea interesse, un dibattito, quindi seguito. Allora la prima opzione dovrebbe essere quella di tenere sempre la porta aperta, che siano sportivi coevi, come Federer e Nadal, o di epoche diverse come Jordan e LeBron. Non a caso adesso si parla di LeBron per interrogativi, come “è questo titolo a renderlo il migliore? Può vincerne almeno un altro? Cosa viene dopo?”».
Adesso non resta che aspettare la prossima impresa, di LeBron, Nadal, Hamilton, Messi o dei loro epigoni. Per costruire l’ennesimo confronto e provare a dare una risposta a un quesito che forse sarebbe meglio non porre.