DPCM 1000 L’ultimo colpo ferale a un settore già al collasso

Perché chiudere alle 18 ristoranti, bar e locali significa affossare senza possibilità di riscatto uno dei comparti trainanti dell’economia del nostro Paese

Dopo mille anticipazioni e rumors, anche questa volta è arrivato l’ultimo DPCM del Governo Conte.

Chiusi tutti gli esercizi di somministrazione alle 18, con il pranzo che sarà la nuova cena e la colazione che diventerà cool come l’aperitivo. Almeno fino al 24 Novembre, data messa al momento come limite alla norma.

Non si sono fatti attendere i commenti dei ristoratori, ormai bersaglio mobile di qualunque regolamento, primi colpevoli dello sviluppo del virus, depositari massimi del contagio.

Distanziati o no, dalle 18 diventano pericolosi: non è bastato il coprifuoco (ci stiamo ancora interrogando sul suo senso) a fermare la letalità dovuta allo stare seduti a un tavolo, distanziati e sanificati, sfebbrati e monitorati.

Lavorare e studiare: non possiamo fare altro, null’altro ci è concesso. Siamo animali economici, per i settori che hanno grandi lobby e potenza di fuoco. Non siamo animali gastronomici, ormai è evidente.

Abbiamo tre modeste proposte.

Un piano serio, fattivo, istantaneo di sussidi alla categoria da parte del Governo. Siamo una Nazione di un Paese evoluto, dobbiamo far fronte a una pandemia, ma dobbiamo anche evitare che uno dei cardini della nostra economia sia devastato da una norma che salvaguardia (forse) la salute pubblica ma non garantisce il futuro in migliaia di luoghi di aggregazione, simbolo stesso di quel made in Italy che da sempre sventoliamo come vessillo per il resto del mondo.

Chiediamo ai delivery di ricalibrare le loro tariffe, cercando di abbassare il loro fee, in modo che i ristoratori possano continuare a fare delivery con un po’ di guadagno in più. Al momento la situazione in questo senso è davvero troppo sbilanciata a favore dei grandi gruppi, che con l’accelerata di maggio e giugno possono permettersi un introito calmierato.

E chiediamo ai clienti di non abbandonare i propri ristoratori, i propri locali del cuore. Stiamo vicino a chi ci accoglie e ci ristora, a chi cucina al posto nostro quando siamo stanchi e ci regala momenti di godimento quando dobbiamo festeggiare. Non smettiamo di investire nei loro locali, anche se chiusi. Cerchiamo per quanto possibile di ordinare, di mangiare, di sostenerli.

Perché se c’è una sola possibilità che alla fine di tutto questo siano ancora lì ad aspettarci, adesso dipende davvero solo da noi.

Nel frattempo, raccogliamo le reazioni a caldo dei tanti imprenditori e delle associazioni di categoria, che stanno organizzando proteste e stanno cercando di capire come sarà il loro futuro. C’è persino chi sta già organizzando la strategia da domani: non possiamo che plaudere all’entusiasmo, e sottolineare quanto più possibile la capacità di questa categoria di non mollare mai, di reagire con tenacia, di proseguire nel lavoro anche quando tutto sembra remare contro.

La FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) è determinata nel chiedere un sostegno: «Le misure annunciate dal governo costeranno altri 2,7 miliardi di euro alle imprese della ristorazione. Se non accompagnate da contemporanee e proporzionate compensazioni di natura economica, sarebbero il colpo di grazia per i pubblici esercizi italiani, che già sono in una situazione di profonda crisi, con conseguenze economiche e sociali gravissime». E aggiunge: «Gli imprenditori di questo settore si stanno dimostrando persone responsabili, che rispettano rigorosamente i protocolli sanitari loro imposti, che non possono reggere ulteriormente una situazione che decreterebbe la condanna a morte per migliaia di imprese. È evidente che non si possono far ricadere le responsabilità del ritorno dell’epidemia sul nostro comparto: sono altri i fattori che hanno purtroppo causato una nuova emergenza».

Stesso pensiero per Ciccio Sultano, due stelle Michelin siciliano: «Alle 18, di solito, apriamo per le pulizie» scrive sui suoi social network: «Sono senza parole, di fronte alla prospettiva che dovremo chiudere alle sei del pomeriggio. Tanta vale aprire solo per il pranzo o non aprire proprio. È inaccettabile che, invece, di assumerci tutti una fetta di responsabilità, si decida per la legge del taglione. Posso dire che, dal momento della riapertura a oggi, il mio Ristorante come chiunque si sia attenuto e abbia fatto rispettare le regole, ha rappresentato una sorta di presidio medico. Nel mare magnum della ristorazione, le situazioni e i comportamenti non sono sempre gli stessi. Fare di tutta l’erba un fascio, di solito, denota un fondo di paura o di incomprensione della realtà».

Gli fa eco Max Mascia, chef dello storico ristorante di Imola che ha dichiarato all’Ansa: «I ristoranti che rispettano le regole hanno il diritto di lavorare. Noi ci siamo adeguati, abbiamo investito, distanziato, rispettato le regole. Il problema non siamo noi ma le scuole e il trasporto pubblico. Sono le resse di studenti all’ingresso e all’uscita di scuola, gli autobus pieni: non è stato fatto niente dal pubblico mentre da noi privati sì». È lui che spiega meglio di tutti il non senso di una chiusura alle 18: «I ristoranti vivono con la cena. Quelli che vivono con il pranzo lo fanno con i business lunch ma con lo smart working i business lunch non ci sono più. Quindi – aggiunge – dirci di chiudere alle 18 vuol dire dirci di chiudere. E a questo punto ci vuole un ristoro. Non si può chiudere e basta. Se non mi fai lavorare, mi aiuti».

Ed è proprio il giovane chef a mettere in luce uno dei problemi più grandi, quando si fanno leggi uguali per situazioni completamente diverse: «Il problema – spiega – sono i codici Ateco, quelli che mettono insieme tutti i locali, dai ristoranti, ai pub, a chi fa apericena; realtà diverse alcune in grado di garantire il distanziamento altre no. Bisognerebbe distinguere e pensare anche a obblighi diversi fra “grandi città e piccoli centri, lasciando i locali aperti nei secondi e mettendo l’obbligo di non uscire dal Comune dopo le 18. La violenza non porta da nessuna parte ma ci vuole qualcuno che ascolti non solo chi lancia i sassi ma anche chi parla con pacatezza. Ci sono persone che hanno investito, giovani che hanno iniziato da poco e loro non ce la faranno».

Anche Filippo Saporito, presidente dell’Associazione JRE chiede a gran voce sostegno, perché la chiusura alle 18 è davvero un colpo dal quale è impossibile rialzarsi: «Siamo molto amareggiati, ci sentiamo colpiti profondamente ma assolutamente non colpevoli, dobbiamo pagare per negligenze altrui. Fin da subito ci siamo impegnati per rispettare le regole e adeguarci a tutte le norme di sicurezza e distanziamento legate alla salute. Questo anche a fronte di importanti investimenti, nonostante il durissimo colpo ricevuto. Ecco perché i ristoranti e tutte le attività che rispettano queste regole hanno il diritto di essere messe in condizione di lavorare. Il problema non siamo noi, non possiamo essere sempre il capro espiatorio di questa situazione, soprattutto quando non ci si sofferma abbastanza sulla regolazione di tematiche come, ad esempio, il trasporto pubblico e gli autobus continuano a essere pieni. La chiusura alle 18 impedisce a noi ristoratori di lavorare poiché, soprattutto con il sempre più diffuso utilizzo dello smart working, i ristoranti vivono con il servizio serale. Chiudere alle 18 significa chiudere completamente. E se questo è ciò che siamo costretti a fare, allora è imprescindibile la necessità di un sostegno come è accaduto in altri Paesi».

L’unica nota di speranza che al momento abbiamo intercettato è quella di Fabio Tammaro, uno dei primi a reagire fin da marzo, sempre determinato ad andare avanti, nonostante le nuove regole limitino di molto ogni possibilità. «Cambiano le carte in tavola. Ancora una volta. Stesso gioco, con regole diverse. È già la terza o quarta volte che ci capita, e non sarà certo l’ultima purtroppo. Abbiamo ceduto inizialmente, soprattutto emotivamente – lo ammetto. La speranza era che quelle anticipazioni fossero riviste e mai decretare. Ma si sa, se spero nei miracoli devi mettere in conto anche la brutale normalità. “Quando preghi per la pioggia devi mettere in conto il fango”. Ed è arrivato, il fango. Ci siamo già messi al lavoro per cambiare orari, per ampliare i servizi di consegna e per garantire il take away tutti i giorni fino a mezzanotte. Apriremo a pranzo con uno speciale menù super coccoloso, per quattro o cinque giorni a settimana, tra cui la Domenica che per fortuna continuerà ad essere il giorno da santificare, soprattutto per noi ristoratori! Tra qualche ora vi comunicheremo sui vari canali ufficiali di Ristorante Officina dei Sapori, Officina del Crudo e Sfritto tutti i servizi potenziati per affrontare insieme questo mese che sarà sicuramente lunghissimo».

Non sappiamo se sia più disperazione o più convincimento, ma di sicuro sappiamo che in una situazione come questa ogni bicchiere mezzo pieno serve. Prosegue Tammaro: «Alla fine, passerà. Siamo tutti ammaccati ma la voglia di fermarci non ci ha mai sfiorato.

Finché ci lasciano un piccolissimo spiraglio di luce, noi continueremo a contrastare il buio.

Rispetto al primo lockdown questa volta non sarò solo ma ho tutta la mia squadra a supporto. Sono un ristoratore fortunato. Seguirà un periodo tostissimo, ma lo sapevamo.

Adesso si scende giù fino agli abissi, in apnea. Siamo vicini al fondo, molto vicini. Ma le perle si trovano proprio qui, in mezzo al fango e ai detriti… Trattenete il fiato, ci sarà da scendere a lungo. Dove dormono le balene».

Speriamo che in molti riescano – nonostante tutto – a seguire le sue intenzioni.

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