Il 16 ottobre intorno alle 23 la Regione Lombardia ha emanato un’ordinanza con validità dalle ore 00 di sabato 17 ottobre fino a venerdì 6 novembre 2020. Una delle nuove norme, la più contestata, colpisce le bevande alcoliche: «È vietata la vendita per asporto di qualsiasi bevanda alcolica da parte di tutte le tipologie di esercizi pubblici, nonché da parte degli esercizi commerciali e delle attività artigianali dalle ore 18.00. Resta sempre consentita la ristorazione con consegna a domicilio».
Il 17 ottobre alle 18.01 ci siamo resi conto che se avessimo avuto bisogno del vino per sfumare il risotto, l’avremmo potuto ordinare su un sito di vendita online, ma non l’avremmo più potuto comprare insieme al riso e al burro, al supermercato.
A molti è sfuggito il senso della cosa, visto che le norme successive – da sole – sarebbero state sufficienti per evitare assembramenti alcolici. L’ordinanza infatti prosegue: «È vietata dalle 18.00 alle 6.00 la consumazione di alimenti e bevande su aree pubbliche. È sempre vietato il consumo di bevande alcoliche di qualsiasi gradazione nelle aree pubbliche compresi parchi, giardini e ville aperte al pubblico».
In rete si sono sprecati i commenti, ne abbiamo letti moltissimi ma due ci hanno colpiti, perché analizzavano il problema da un punto di vista diverso, facendoci riflettere sulla ratio ma soprattutto dandone una lettura sociale e gastronomica diversa.
Niccolò Vecchia, autore di Identità Golose e giornalista a Radio Popolare, in un post molto commentato su Facebook scrive: «Trovo che l’idea contenuta nell’ordinanza della Regione Lombardia che vieta la vendita di alcolici dalle 18 alle 6 sia molto significativa, che racconti tante cose di come tante persone guardano il mondo che li circonda e la gente che lo abita. L’unica ratio di quella norma è che quando tramonta il sole le persone siano meno responsabili. E che il consumo di alcol riduca ulteriormente la coscienza di sé. Un’idea che personalmente riesco a collegare solo a un approccio puritano alla vita: e non è un complimento, da nessuna parte lo si giri. Non c’è nulla di sano, di razionale, di corretto, nel presumere a priori quando i nostri concittadini siano più o meno responsabili, e cosa li renda più o meno responsabili. L’unica cosa sana e giusta, in uno stato di diritto, è che ci siano delle norme di comportamento e delle leggi, e che ognuno sia chiamato a essere responsabile di quello che fa, o non fa. Sempre. Alle 7 di mattina, o alle 2 di notte».
Tunde Pecsvari, ristoratrice e CEO di Osteria Brunello e del gruppo di locali Macha, ha invece colto nella disillusione collettiva uno spunto per una riflessione più ampia su uno dei settori più colpiti dalla crisi e dalle ordinanze, come fosse uno dei veri cardini del problema: «A giudicare dal numero di post, tra l’incredulo e l’ironico, che ha ricevuto il nuovo divieto di vendere alcolici d’asporto dopo le 18, supermercati compresi, con questo provvedimento la percezione del ridicolo da parte dei cittadini ha raggiunto nuove vette. Ma la parte dei miei amici che aveva il tenore più sull’incredulo, evidentemente non ricorda la vastità e l’assurdità dei provvedimenti che ha colpito la ristorazione negli ultimi mesi. Perché il nostro è un settore che resiste, che combatte, non semplicemente con le proprie forze e senza aiuti (che sarebbe già dura), ma proprio ostacolato, trascinato (verso il baratro) e martoriato da chiunque abbia potere decisionale negli ultimi mesi. E tutto questo ovviamente senza che ci sia un beneficio o un vantaggio di alcun tipo, men che meno un miglioramento della situazione sanitaria. È proprio davvero solo un distruggere in modo cieco e casuale, e sembra che la ristorazione è sempre puntualmente il primo bersaglio che capita a tiro».
Pecsvari prosegue: «Otto mesi dopo l’inizio della situazione d’emergenza, dopo un periodo di sacrifici durissimi da parte dell’intero paese, che in particolare per le imprese della ristorazione ha significato perdite ingenti che potranno essere colmati solo in anni di durissimo lavoro, non è più ammissibile prendere provvedimenti con l’accetta. Un settore in ginocchio non può sopportare altri colpi casuali e insensati che – autentico danno oltre la beffa – non hanno poi alcun effetto reale di contenimento del virus. Se si impedisce a una persona che esce dall’ufficio alle 18.05 di passare in enoteca per comprare una bottiglia di vino, non si sta combattendo il coronavirus; si crea un assurdo e incomprensibile limite per i cittadini e un danno economico per le imprese, che poi significa sempre meno tasse e quindi meno risorse per lo Stato e per la sanità. Se esiste un problema di assembramento nei luoghi pubblici, va combattuto specificamente quel fenomeno, in modo più possibile chirurgico, evitando qualunque generalizzazione e la penalizzazione di attività che nulla hanno a che fare direttamente con il problema in questione. Non è ammissibile che un ipermercato non possa vendere una birra, o un ristorante non possa vendere una bottiglia di vino direttamente al cliente, quando oltretutto lo stesso cliente nello stesso momento può ordinarlo da un app con la consegna a domicilio immediata. La ristorazione, come tutto il settore alimentare va visto per quello che è, un’enorme risorsa per questo Paese, va sostenuto e valorizzato anche e soprattutto in un periodo di gravi difficoltà come quello che stiamo vivendo».
E mentre cerchiamo di capire il senso della norma, leggiamo ogni nota, ogni anticipazione, ogni illazione sul presunto DPCM che a seconda dei giornali, dei profili e dei social sarà tragico o troppo lasco. Spreco di parole sul nulla cosmico, visto che al momento non ci sono informazioni sicure su ciò che deciderà il Governo. Ma qualche chef ha già deciso che è il caso di scendere in piazza, tutti in Duomo, senza mascherina, addirittura con l’avallo della magistratura (sic).