Stallo alla bruxelleseTutte le domande (e le risposte) per capire come finirà la questione del veto di Polonia e Ungheria

Nella newsletter di Europea di questa settimana abbiamo approfondito perché il premier ungherese Viktor Orbàn e il suo omologo Mateusz Morawiecki non vogliono un meccanismo per vincolare l’accesso ai fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto. Uno stallo che blocca l’approvazione del bilancio Ue 2021-2027 e del NextGenerationEu

LaPresse

Pubblichiamo la newsletter di Europea di questa settimana interamente dedicata alla vivenda del veto di Polonia e Ungheria. Una serie di blocchetti di domande e risposte per capire cosa vuol dire concretamente il veto, cosa potrebbe accadere ora, le strategie dei vari Stati e la posizione di Ungheria e Polonia. 

Sono giorni che si parla del veto Polonia e Ungheria, di budget Ue, di NextGenerationEu e di Stato di diritto. Ma che succede? Facciamola semplice: il 16 novembre gli ambasciatori di Polonia e Ungheria hanno messo il veto all’accordo sul prossimo bilancio dell’Unione europea 2021-2027. Con il veto non può neanche essere approvato il NextGenerationEu, perché è legato all’intero pacchetto di aiuti per la precisa volontà della Commissione europea. Tradotto: con questo stallo i 208,8 miliardi di euro di aiuti per l’Italia non arriveranno. Ed è un problema. 

Perché Ungheria e Polonia hanno messo il veto? Perché sei giorni prima, il 10 novembre, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea (l’organo in cui siedono i governi dei 27 Stati membri) hanno trovato un accordo preliminare per introdurre un meccanismo che impedisca ai Paesi che non rispettano lo Stato di diritto di accedere ai fondi europei. Stando così le cose, i governi di Ungheria e Polonia non potrebbero accedere ai fondi, non solo quelli del NextGenerationEu, ma in generale tutti quelli comunitari. Questo perché negli ultimi anni Budapest e Varsavia hanno approvato molte leggi che limitano l’indipendenza della magistratura, dei media, e i diritti civili. Insomma la base dello Stato di diritto. . 

Fermo qui. Ma se il Consiglio Ue ha trovato un accordo col Parlamento non lo ha fatto anche a nome di Polonia e Ungheria? Hai scritto tu che quell’organo rappresenta i governi dei 27 Stati membri. Tecnicamente l’accordo preliminare con i delegati del Parlamento europeo lo hanno concluso i rappresentanti tedeschi del Consiglio Ue, perché fino al 31 dicembre è la Germania a guidare i lavori di questo organo (ogni 6 mesi spetta a turno a tutti i Paesi membri). E questo è un dettaglio importante perché come tutti gli accordi preliminari ha bisogno di essere approvato formalmente da tutte e due le istituzioni. Il Parlamento lo ha fatto con un dibattito mercoledì 11 durante la sua plenaria, ma il Consiglio no. Perché Ungheria e Polonia hanno detto da tempo che avrebbero messo il veto a un meccanismo per collegare il rispetto dello stato di diritto ai fondi Ue. 

Quindi i rappresentanti tedeschi del Consiglio hanno forzato la mano? Sì perché altrimenti il Parlamento europeo non avrebbe mai dato il suo ok all’intero pacchetto (Budget 2021-2017 + NextGenerationEU). La speranza dei tedeschi era che Polonia e Ungheria non si mettessero contro la volontà di 25 Stati membri, ma non è stato così. Alla fine i nodi sono venuti al pettine. E in effetti gli ambasciatori di Varsavia e Budapest  non hanno bloccato davvero l’approvazione di tutto il pacchetto, ma hanno espresso le riserve solo su quella parte dell’accordo. 

Beh, ma se hanno detto di no di cosa stiamo parlando? Non cambieranno mica idea. Primo, la politica è l’arte del compromesso e Bruxelles non fa eccezione. Secondo, questo veto di Polonia e Ungheria è arrivato in un organo meno importante degli altri: il Coreper, ovvero il Comitato dei rappresentanti permanenti. Il solito parolone per chiamare l’organo che riunisce i capi o vice-capi delegazione degli stati membri presso l’Unione europea. Tradotto a dare il veto non sono stati i premier Viktor Orbàn e Mateusz Morawiecki ma i loro ambasciatori. Questo fa tutta la differenza del mondo perché esiste un organo fatto apposta per trovare compromessi impossibili: il Consiglio europeo dove si riuniscono i 27 leader degli Stati membri. Il prossimo è il 10 dicembre e lì ci sarà la discussione finale. 

Ma ieri sera non c’è stato il Consiglio europeo? Non proprio, c’è stata una videoconferenza informale. Vengono convocate spesso per discutere di temi importanti senza per questo creare l’aspettativa nell’opinione pubblica di un voto. Ieri i 27 leader hanno discusso del veto di Polonia e Ungheria, ma solo per 17 minuti. Nell’ordine hanno parlato tutti i protagonisti della vicenda: il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, la cancelliera Angela Merkel, i due premier di Polonia e Ungheria. E anche il premier sloveno Jansa, (di lui parleremo tra poco). Ma forse serve la pressione mediatica del Consiglio europeo per mettere i leader con le spalle al muro e trovare una decisione. Come è stato a luglio quando si è trovato l’accordo sul NextGenerationEu che pareva impossibile. Quindi tutto è rimandato al 10 dicembre.

E che problema c’è? Togliamo la condizione che si può accedere ai fondi europei solo se si rispetta lo stato di diritto. Certo, e poi approviamo una legge per abolire tutti i diritti civili e trasformiamo questa newsletter in Dispotika. Scherzi a parte, non solo il Parlamento europeo ha già detto che senza quella clausola non voterà il bilancio, ma lo stesso hanno promesso di fare Austria e Paesi Bassi. Siamo arrivati alla resa dei conti di un problema che da anni travaglia l’Unione europea. Il rischio è che questo stallo si prolunghi facendo fallire il progetto del NextGenerationEu. Questo avrebbe delle ricadute negative anche sulla percezione dell’Unione europea. 

Ma se la Germania ha già forzato la mano con quell’accordo preliminare, non potrà farlo anche il 10 dicembre? Magari con una votazione 25 contro 2 in modo da far capire le posizioni. Purtroppo il Consiglio europeo funziona per consenso. Bisogna decidere le cose all’unanimità. E anche se si forzasse con una votazione a maggioranza nel Consiglio dei ministri Ue c’è il rischio che alcuni Stati non rispettino le decisione. Come è successo nel 2015 con la distribuzione dei migranti. L’allora presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker chiese a Francia e Germania di forzare la mano e il risultato fu che Ungheria e Polonia non accolsero neanche un migrante. Questa situazione è diversa nei particolari ma non nella sostanza: la lezione che hanno imparato i leader europei è di non forzare la mano su questioni chiave. Anche a costo di avere uno stallo prolungato.

Ma come se ne esce? In cinque modi. Primo, si può togliere la condizione dello Stato di diritto per accedere ai fondi. Sarebbe una straordinaria vittoria per Polonia e Ungheria e una sconfitta per chi vede l’Unione europea come qualcosa di più di un mercato unico. Secondo, i 25 Stati membri potrebbero stipulare un accordo intergovernativo per crearsi da soli il NextGenerationEu senza Polonia e Ungheria. Un po’ come è successo nel 2011-2012 quando gli Stati si sono messi d’accordo per creare il Meccanismo europeo di stabilità, il Mes per capirci. Questo sarebbe un accordo fuori dai trattati europei e gestito da alcuni Paesi Ue che metterebbero i loro rappresentanti in un cda che gestisce il fondo. 

Si può fare? Sì e no. Si può fare tutto, ma un accordo intergovernativo farebbe cadere tutta l’architettura del pacchetto di 1800 miliardi di euro di aiuti perché il NextGenerationEu sarà erogato anche attraverso i fondi Ue del bilancio 2021-2027. Non è solo un problema di narrazione dell’unità europea è una questione tecnica. E poi il veto di Polonia e Ungheria è nello specifico sul bilancio Ue dei prossimi sette anni perché il meccanismo del rispetto dello stato di diritto coinvolge tutti i fondi europei. Quindi un accordo tra gli Stati come proposto dalla Francia risolverebbe in parte il problema del NextGenerationEu ma non quello dei fondi europei in sé. E lo stesso vale per la terza opzione, la cooperazione rafforzata, una procedura prevista dai trattati che permette ad alcuni Stati di fare progetti insieme escludendo chi non ci sta. In altre parole: si può creare pure il club dei 25 ma il problema di fondo rimane. 

Mancano ancora due opzioni su come uscirne. La quarta è lo scontro frontale: votare a maggioranza qualificata nel Consiglio l’introduzione del meccanismo di condizionalità e tagliare tutti i fondi del bilancio Ue a Polonia e Ungheria. Non solo quelli del 2021-2027 ma anche quelli che Budapest e Varsavia devono ancora ricevere dall’ultimo settennato (2014-2020). Questo potrebbe però essere il punto di non ritorno. 

E il quinto? Il metodo Merkel: aspettare e lasciar fare il lavoro sporco al suo alleato più forte: il tempo. Parliamo della stessa tecnica usata per ammorbidire la posizione dei quattro Stati frugali (Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca) che rischiavano di far saltare a luglio il NextGenerationEu. Magari in cambio i leader Ue potrebbero offrire la chiusura delle indagini sulle presunte violazioni dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria (l’articolo 7 del trattato). Con il passare del tempo aumentato le dichiarazioni dei leader politici, come il premier rumeno Ludovic Orban (non è parente) che ha invitato Orbàn e Morawiecki a miti consigli.  Lo stesso ha fatto Manfred Weber il capo del Partito popolare europeo di cui in teoria fa parte anche Fidesz, il partito di Viktor Orbàn. Se arriveranno altre dichiarazioni, editoriali o appelli di imprese e cittadini, a poco a poco l’opinione pubblica che conta inizierà a premere sempre più sia in Europa che all’interno di Polonia e Ungheria. Quanto potranno resistere i due premier?

Ma se come dite da anni anche nei vostri podcast Polonia e Ungheria sono dittature, pensi davvero che polacchi e ungheresi protesteranno? Non sono dittature, ma democrazie sempre più illiberali sì. Ma sono parole di Orbàn, non mie. E poi i sindacati di Polonia, Ungheria e Cechia hanno pubblicato il 19  novembre un comunicato chiedendo ai loro governi di approvare l’accordo, quindi sta già iniziando quel movimento di pressione per far cambiare idea ai due premier. Poi, come sottolinea anche l’eurodeputata ungherese Katalin Cseh di Momentum (fa parte dell’eurogruppo dei liberali) secondo gli ultimi sondaggi di Eurobarometro il 72% degli ungheresi è a favore del meccanismo dello Stato di diritto. Quindi sarebbe difficile per Orbàn dire che sta difendendo gli interessi degli ungheresi. 

Ma gli altri due Paesi del gruppo di Visegrad che di solito costituiscono un blocco compatto con Polonia e Ungheria che dicono? Sia la Cechia che la Slovacchia sono a favore del meccanismo dello stato di diritto e Bratislava sta divergendo sempre di più dalle posizioni sovraniste. Ad avvicinarsi invece ai Budapest e Varsavia è stato il premier sloveno (non slovacco) Janez Janša che ha scritto addirittura una lettera al presidente del Consiglio europea Michel per dire che: «Alcuni gruppi politici stanno minacciando apertamente di utilizzare lo strumento erroneamente chiamato “stato di diritto” per disciplinare i singoli Stati membri dell’UE attraverso un voto a maggioranza». Ma Jansa è stato anche l’unico leader europeo a complimentarsi per la vittoria di Trump alle elezioni, quindi la sua affermazione lascia il tempo che trova. E anche se la Slovenia si accodasse a Polonia e Ungheria anch’essa rischierebbe di perdere i fondi europei. 

Cosa succede se entro dicembre non si trova un accordo? Dal 1 gennaio entrerebbe in vigore un budget quasi fotocopia di quello del 2020, e tutti i nuovi fondi legati al clima come il Just transition fund che dà svariati milioni per sostenere le regioni dipendenti dal carbone come quelle in Polonia non ci sarebbe più. Per questo molti analisti pensano che il tempo sia il migliore alleato almeno per convincere almeno la Polonia e isolare Orbàn. 

Anche l’Ungheria ha bisogno di fondi. Sì e molte inchieste giornalistiche hanno svelato il giro di imprenditori e familiari che si è arricchito grazie ai fondi europei destinati all’Ungheria. Il giornale investigativo ungherese Direkt36 ha rivelato che il padre di Orbàn ha guadagnato decine di milioni di euro creando società che lavoravano come fornitori o subappaltatori (per non apparire direttamente come beneficiario dei fondi e causare sospetti) per numerose opere pubbliche finanziate con i fondi Ue, compresa la contestata autostrada che attraversava la grande pianura ungherese.

Possiamo sbattere fuori Polonia e Ungheria dall’Unione europea? Voi no, e a dirla tutta neanche gli altri Paesi dell’Unione europea. Possono farlo solo Varsavia e Budapest da sole attivando l’articolo 50 dell’Unione europea, quello che ha usato il Regno Unito per intenderci. 

Ma come si sono giustificati gli ungheresi? Ce lo siamo chiesti anche noi. Vincenzo Genovese ha intervistato per noi alcuni eurodeputati di Fidesz tra cui l’ex ministro degli Esteri Enikő Győri «Il Parlamento Europeo sta cercando di uccidere politicamente il governo Orbán» ci ha detto. La tesi di fondo è che le istituzioni europee hanno cambiato le carte in tavola rispetto allo storico accordo del Consiglio europeo di luglio. 

È così? In realtà i punti 22 e 23 del testo ufficiale sottolineavano l’importanza di proteggere gli interessi finanziari dell’Ue e lo Stato di Diritto e annunciavano che un meccanismo di condizionalità sarebbe stato introdotto. E poi a dirla tutta questo meccanismo è stato addolcito nel corso delle negoziazioni. La Commissione ha sempre la decisione finale se sospendere o meno i fondi ma per farlo servono due condizioni. Deve avere il voto favorevole della maggioranza qualificata degli Stati membri e le violazioni dello stato di dirito devono incidere in modo diretto sulla gestione del bilancio comunitario e la tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Un concetto abbastanza vago per poter evitare la sanzione, se c’è la volontà politica. 

Polonia e Ungheria sono davvero così illiberali? Non basta una newsletter per parlare in modo approfondito della lenta erosione della democrazia in Polonia e Ungheria, ma un podcast sì. Nella quarta puntata di Oltre l’Europa abbiamo raccontato passo dopo passo tutte le leggi liberticide approvate da Varsavia e Budapest. 

Se siamo arrivati a questo punto sentiremo pure il podcast. Ma ora facci almeno due esempi. Nel 2015, appena arrivato al governo, il partito sovranista Diritto e Giustizia (PiS) ha abbreviato il mandato del presidente e del vice presidente della corte costituzionale da nove a tre anni, rendendo di fatto la loro conferma soggetta alla volontà dell’esecutivo. Sempre nel 2015 PiS ha imposto alla corte costituzionale di poter giudicare la costituzionalità delle leggi solo se la sentenza è approvata dai ⅔ dei magistrati della corte, mentre prima bastava la maggioranza semplice. La maggioranza sovranista ha approvato anche una legge che permette al governo di sciogliere immediatamente i cda della tv e radio pubblica polacca così come i consigli di vigilanza che vengono messi entrambi sotto il controllo del ministro del Tesoro. Per non parlare della riforma del dicembre 2017, in cui il governo polacco ha deciso di abbassare l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema polacca da 70 a 65. Questo ha portato al congedo di 27 dei 72 giudici della Corte che sono stati rimpiazzati dal governo. Una legge che ha limitato ancora di più l’indipendenza della Corte dal potere esecutivo. 

Ok, e in Ungheria? Nel marzo 2013 il premier Orbàn ha fatto approvare dal Parlamento degli emendamenti alla Costituzione per limitare la libertà di espressione e di opinione nel caso leda la “dignità della nazione ungherese”, per impedire alla Corte costituzionale di annullare una legge se è stata approvata dai ⅔ del Parlamento e consentiresolo ai media di Stato di trasmettere pubblicità politica prima delle elezioni. Pochi giorni fa il governo ha proposto una norma per ammettere alle elezioni solo i partiti che corrono in almeno 50 distretti. Una mossa per scoraggiare i piccoli movimenti di opposizione ad appoggiare un candidato comune anti Fidesz.