«Si può affermare che la civiltà ha avuto inizio quando l’individuo, nel perseguire i suoi fini, ha potuto utilizzare conoscenze maggiori di quelle da lui stesso acquisite e quando, approfittando di una conoscenza che egli stesso non possedeva, è potuto uscire dai confini della sua ignoranza».
Quando scriveva in inglese, lo stesso Hayek riconosceva di fare «frasi troppo lunghe», retaggio del tedesco. I suoi libri sono senz’altro più densi che facili. Ma se questa citazione lascia di primo acchito perplessi non è per quanto facciamo fatica a comprendere: è invece proprio per quello che comprendiamo subito. Hayek ci dice che c’è “civiltà” non perché aumentano le conoscenze a nostra disposizione, perché un singolo individuo sa fare più cose dei suoi antenati, o perché lo stesso si ipotizza faccia quello strano animale che chiamiamo «società».
Al contrario: noi usciamo «dai confini della nostra ignoranza» non perché abbiamo studiato, per esempio, cinque anni di più di quanto non abbiano fatto i nostri genitori, ma grazie agli altri.
Non è nemmeno detto che ciascuno di noi davvero disponga di più conoscenze di chi ci ha preceduto su questa terra. Per esempio, con tutta probabilità i nostri nonni, per poter stare al mondo, trovare un lavoro e tenerselo, dovevano sapere fare molte cose che noi oggi ignoriamo felicemente. Per limitarci a un esempio: non solo vivevano in case assai meno confortevoli delle nostre, ma dovevano saper riparare l’impianto idraulico se avesse smesso di funzionare, stuccare una parete in caso si crepasse, maneggiare utensili dai quali dipendeva l’esito dei loro sforzi sul lavoro.
Oggi, in paesi dove i servizi contano per il 70 per cento di un’economia, il bricolage è un hobby e il rapporto con il mio strumento di lavoro (il computer) si concretizza nell’accenderlo la mattina e nello spegnerlo la sera. In caso smetta di funzionare, provo a fargli una carezza e, se proprio non dà segno di tornare in vita, chiamo un tecnico specializzato.
Il «progresso» non consiste nell’aumento del livello di conoscenza “medio” del singolo individuo. Quest’idea ci viene da un modello “lineare”, coerente con la crescita dei tassi di alfabetizzazione, i quali coincidono senz’altro con una maggiore consapevolezza da parte del singolo. Ma la conoscenza, e soprattutto la conoscenza utile, non si riduce all’abilità di leggere e scrivere.
La civiltà «è un gigantesco strumento per fare economia di conoscenza». È ormai un luogo comune dire che la tecnologia ci rende stupidi, non senza un po’ di malinconia per i tempi delle enciclopedie vendute per corrispondenza. E nondimeno, sotto molti aspetti, il progresso è precisamente questo: beneficiare sempre di più della conoscenza altrui, godere dei vantaggi di strumenti, tecnologie, macchinari, che per molti di noi sono indistinguibili da trucchi magici se non fosse che sappiamo che non lo sono. Accendere il computer ed essere ragionevolmente sicuri che funzionerà, anche se non so bene perché.
Per Hayek, esiste «un problema di divisione della conoscenza che è del tutto analogo, e di almeno pari importanza, a quello della divisione del lavoro».
L’accusa centrale di Hayek e della scuola austriaca alla pianificazione centralizzata, maturata come abbiamo detto nel dibattito sul calcolo economico degli anni trenta, è riassumibile nell’idea che le conoscenze sono disperse nella società e che pertanto non vi è modo che un singolo decisore possa disporre di tutte le informazioni necessarie per realizzare, utilizzando i fattori appropriati, le produzioni per le quali vi è effettiva domanda.
C’è differenza, dunque, rispetto alla più comune accusa al socialismo d’impianto “conservatore”: molti dei nemici delle dottrine socialiste, infatti, si concentrano sul tema degli incentivi. La proprietà comune e la stessa idea che possa esistere un sistema imperniato sul principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» aprirebbe la via verso il sottosviluppo.
Se a ciascuno viene dato, per l’appunto, sulla base delle sue necessità indipendentemente dal suo contributo alla produzione, perché mai dovrebbe mettere in gioco fino in fondo le proprie capacità? Il socialismo sarebbe dunque destinato a trasformarsi nella società dei fannulloni.
Finché c’è la divisione del lavoro, per aumentare il prodotto sociale è necessario convincere ognuno di coloro che vi danno il proprio apporto a non tirare i remi in barca. Forse non è un caso che, in quelle pagine famose dell’Ideologia tedesca, Marx ed Engels (1820-1895) di fatto immaginino una società che ha superato la divisione del lavoro.
Hayek non ferma l’attenzione sugli incentivi: guarda invece alle conoscenze, alle congetture circa l’impiego di questo o quel bene di ordine superiore, per realizzare un determinato prodotto.
I problemi con l’economia di piano sussisterebbero persino se il socialismo fosse riuscito davvero a riplasmare la natura umana e nella società comunista ciascuno lavorasse per il puro piacere di farlo e di mettersi al servizio degli altri. Vi sarebbe comunque un problema di distribuzione e condivisione delle informazioni rilevanti per orientare le scelte di produzione.
La civiltà ha avuto inizio quando l’individuo ha potuto avvantaggiarsi di conoscenze maggiori di quelle sue proprie: e lo stesso vale per l’economia. Il paragone con la divisione del lavoro è intuitivamente comprensibile: acquistando un certo bene o un certo servizio noi stiamo acquistando lavoro altrui, il lavoro che è stato impiegato per realizzare un’automobile, il lavoro del barbiere che ci sistema la zazzera.
Allo stesso modo, in uno scambio noi mettiamo in moto la conoscenza altrui: se possiamo cambiare la cucina, è perché c’è qualcuno che, in cambio di denaro, ci mette a disposizione capacità e informazioni che noi non abbiamo, quelle che sono servite a realizzare il forno a microonde e il frigorifero, quelle che sono indispensabili per progettare e realizzare il tavolo, quelle necessarie affinché gli elettrodomestici siano ben collegati e correttamente funzionanti.
Noi beneficiamo del loro lavoro, dei loro sforzi: ma anche del portato dei loro sforzi passati, delle esperienze che hanno accumulato, delle nozioni che hanno appreso, delle intuizioni che da esse derivano, all’incontro con una situazione.
Per questo Hayek preferiva per l’ordine di mercato la parola «catallassi», «dal verbo greco katallattein (o katallassein) col quale si intendeva – ed è significativo – non solo “scambiare” ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare da nemici, amici”».
Come avviene questo farsi da nemici, amici attraverso lo scambio? Come facciamo a beneficiare delle conoscenze altrui? Come funziona il processo di coordinamento attraverso il quale noi «usciamo dai confini della nostra ignoranza», e possiamo guidare un’automobile che non abbiamo idea di come funzioni e conservare in un frigorifero, che per noi è una comodità scontata ma i nostri trisavoli considererebbero una magia, prosciutto, formaggio e vino che sappiamo da dove vengono, ma non riusciremmo mai a realizzare da soli?
Per Hayek, «il problema di quale sia il modo migliore di utilizzare la conoscenza inizialmente dispersa tra le varie persone è perlomeno una delle questioni più importanti della politica economica o della progettazione di un sistema economico efficiente». L’approccio hayekiano è serenamente eccentrico in un momento storico nel quale i fenomeni sociali sono osservati sempre più da una prospettiva d’insieme.
Gli individui sembrano puntini irrilevanti, visti dall’alto, mentre la storia appare un incastro di gruppi, di classi, di aggregati sociali ed economici. Ciò conduce a una forma mentis che tende a privilegiare le dinamiche di questi aggregati, rispetto al lavorio costante degli individui che ne fanno parte, all’incastro continuo di domanda e offerta.
Keynes tendeva a pensare per «aggregati» e «le sue teorie definitive poggiano interamente sulla convinzione che esistano relazioni funzionali relativamente semplici e costanti tra tali aggregati “misurabili” […] e che i valori stabiliti empiricamente di queste presunte “costanti” ci permettano di fare previsioni attendibili».
Hayek ne è critico, in parte per ragioni di ordine generale, in parte perché scettico circa misure, che presumono una certa omogeneità delle dinamiche dei prezzi all’interno di un territorio nazionale proprio perché all’interno dei confini nazionali e prendono per buona l’ipotesi che «tutti i prezzi di un paese si muovono insieme in relazione ai prezzi di altri paesi».
Mentre le iniziative “nazionali” esercitano grande presa sui decisori, anche perché appaiono perfette per determinare e giustificare le politiche, per Hayek esse tendono a occultare più di quel che chiariscono.
da “Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale, i sentieri di montagna”, di Alberto Mingardi, Marsilio, 2020