Dopo vent’anni è tornato in una nuova edizione Einaudi, “Via Gemito” di Domenico Starnone e chi conosce (o leggerà) il libro non può non entusiasmarsi vedendo in copertina un particolare de “I bevitori”, un’opera di Federico Starnone. Oltre che del quadro, “I bevitori” è anche il titolo uno dei tre macro-capitoli, quello centrale, del romanzo che ruota proprio attorno alla figura di Federì, padre dello scrittore, artista di grande talento, dotato di una vitalità fuori dall’ordinario.
Il libro che ha vinto il premio Strega nel 2001 racconta la vita di Federì, un artista che non riesce a emergere come sente di meritare ed è così costretto a lavorare come ferroviere. Di conseguenza sfoga la sua frustrazione, anche violenta, su parenti, sulla moglie, soprattutto, su colleghi, amici e, in parte, anche sui figli.
Quando “Via Gemito” è uscito autofiction non era una parola così usata (e, per altri versi, abusata). La prima volta che l’ho letto ricordo di aver collegato solo a metà libro che Mimì era lei (non mi biasimi troppo, avevo vent’anni). Oggi mi pare che il dato autobiografico sia un’ossessione per il lettore.
Le racconto una piccola cosa. Ciò che infastidì di più i primissimi lettori di “Via Gemito” fu l’ingresso, nella seconda parte del libro, dell’autore-personaggio che va a Napoli per rivedere i luoghi di cui sta raccontando. Non era cosa che si facesse molto, all’epoca, soprattutto dopo cento pagine, quando chi legge è dentro la storia.
L’obiezione, ridotta all’osso, era: se sei riuscito a coinvolgere il lettore fin qui, perché gli vuoi disturbare la lettura? Naturalmente l’ultima cosa che avevo in mente era disturbare la lettura. Sentivo solo che, in quel caso specifico, i problemi che incontrava l’autore nel tenere insieme biografia, autobiografia e invenzione erano essi stessi parte del racconto. Il problema per me era lo stesso che se avessi scritto fantascienza: cercare di reinventare i fatti miei in modo da cavarne una storia che non riguardasse solo me.
Il fatto che rileggerlo a vent’anni di distanza faccia emergere cose diverse è perché è un classico. Mi permetta la semplificazione: intendo dire che è un libro che ha da dirci molto, anche se le contingenze sono cambiate parecchio. L’autore si accorge che un suo libro diventa classico?
No. L’obiettivo all’inizio sembra il successo di critica e di pubblico, come si dice con una formula dell’editoria. Ma presto scopri che il successo non prova granché. Viviamo in tempi in cui tutto – anche i libri – invecchia in modo straordinariamente veloce. Basta un autunno a spazzare via un testo ritenuto epocale. Sicché è già un miracolo, se un libro dura quanto dura la tua vita e quella dei lettori della tua generazione.
È bello, per esempio, quando capita di incontrare estimatori invecchiati insieme a te e scopri che si ricordano con piacere di qualcosa che hai scritto quarant’anni prima e di cui tu stesso ricordi poco. Ma è anche malinconico, sembra più che altro una commemorazione. L’unica cosa che fa ben sperare è scoprire che una tua opera ha trovato lettori tra le nuove generazioni. Però, anche in quel caso, per non farsi illusioni, è bene pensare a quanti libri hanno tirato avanti per qualche decennio e poi non hanno detto più niente a nessuno.
La fine del primo ventennio del secolo ha aperto alla possibilità di discutere quali siano i canoni e i classici del secolo.
Eviterei volentieri di fare il gioco delle canonizzazioni, anche perché mi pare che non siamo riusciti a stabilizzare nemmeno il canone del secondo Novecento, figuriamoci quello eventuale di questi primi vent’anni. Appena gli autori escono di scena, è come se le loro opere perdessero lustro. Deperiscono le formulette con cui sono stati incasellati, le guerricciole che li hanno dichiarati vincitori o perdenti, il gusto che li ha sostenuti, i valori letterari che parevano incontestabili.
E poi siamo tra postumano e postcovid, chissà cosa accadrà. Rassegniamoci all’idea che la letteratura è un terreno tra i più friabili, che le opere che conteranno hanno bisogno di tempi lunghi per stabilizzarsi e che, date le grandi mutazioni in atto, non è nemmeno detto che il nostro cervello seguiterà a lavorare come siamo abituati.
Via Gemito è anche un libro sulla paternità. Penso a quanto fosse scontato per Federì mettere al mondo un figlio durante una licenza in guerra. E a quanto, oggi, sia difficile pensare di avere figli – i numeri parlano chiaro. Cos’è cambiato?
È cambiato, meno male, tutto, ma non abbastanza. Federì, è cresciuto sotto il fascismo, si sente il maschio di casa. Ritiene normale sfornare figli senza badare alla contraccezione, come gli pare normale che gli tocchi mantenere la famiglia. Le donne – sua moglie – sono fattrici: restano sempre incinte, si caricano di tutto, fanno un po’ di lavoro nero. Ma è un congegno ormai in crisi. Federì stesso tende contraddittoriamente a incepparlo, e non parliamo di sua moglie. Sognano entrambi un’altra vita: niente lavoro dipendente, libertà, creatività.
Toccherà alla generazione seguente buttare tutto per aria – coppia, figli, famiglia, generi sessuali – solo che ci si fermerà in mezzo al guado. Mentre i ruoli si rimescoleranno secondo nuove prospettive in un crescendo che arriva fino a oggi, il sistema farà finta di niente seguitando a sfruttare e discriminare, ma intanto preparando innovazioni tecnologiche a catena. Siamo a questo punto, in un momento in cui o si rimodella ogni cosa, in fretta, o le cose si metteranno peggio di come già ci sembrano.
Federì ha un tratto attualissimo. Apri Twitter o una rivista online o una diretta Instagram ed è pieno di “Federì”. Scrittori, intellettuali, artisti che non si sentono riconosciuti. In eccedenza. Cosa hanno di diverso queste ricerche di riconoscimento? È solo individualismo o c’è dell’altro?
No, l’individualismo c’entra poco. Io ci vedo da qualche decennio un bisogno massiccio di eccezionalità. L’ha stimolato innanzitutto la scuola, poi la televisione, che ci hanno spinti a una scoperta tanto vera e importante quanto ovvia: nessun essere umano è privo di un suo talento, di una sua sensibilità, di una sua inventiva, di una sua creatività, e dunque chiunque ha il diritto di mettersi alla prova.
Sono andati crescendo così una eccezionalità di massa e un bisogno di riconoscimento associato allo scontento, come se il pubblico si fosse messo a rumoreggiare per poter stare in scena. Federì, sì, è un po’ una sintesi di questo processo oggi evidente, con la sua furia e le sue sofferenze.
Quello che invece lo rende un personaggio di un’altra epoca è la vitalità. Quel tipo di vitalità che Napoli genera, certo, ma anche una vitalità personale strabordante. Esiste ancora quel genere di vitalismo?
Il processo a cui ho accennato si nutre, per ora, di mezza cultura, e la mezza cultura un po’ esige, un po’ frena, pretende ma intanto si vergogna della sua insufficienza. Federì invece ha fatto poca scuola e tutta finalizzata all’avviamento al lavoro salariato. La sua è una ribellione a tutto campo contro un destino sociale che gli pare una condanna.
Lui non muove da una qualche ratifica di merito – un diploma, una laurea, una famiglia consenziente – ma dalla certezza ingiustificata di avere un talento che nessuno, nell’ambiente in cui è nato, ha. La sua vitalità è la vitalità disperata di chi sa che non può retrocedere ma solo andare avanti. È la vitalità di chiunque oggi si trovi in una condizione non di svantaggio – diciamo – artistico, ma di svantaggio e basta.
Nel libro si dice che la famiglia limiti l’artista. È ancora così? O è un alibi?
È un alibi, oggi più che allora. Ed è un alibi meschino. Per evitare di fare i conti con le nostre insufficienze, ce la prendiamo con gli altri, in genere con i più deboli.
Fdrì, genitori e nonni pronunciano così il suo nome, poi col tempo perde un tratto di quella ferinità, prende due vocali e diventa Federì. Ma quel bisogno di istintività irrompe nelle crisi d’ira con le cascate di parolacce (che lei, spesso, scrive attaccate come fossero suoni unici). La perdita di quel modo di essere “naturali” – lo metto tra virgolette – è un processo inevitabile?
Fa bene a mettere tra virgolette ’naturale’. Non c’è niente di naturale nell’esplosione di furie e insulti. Quanto alla grafica di Federì e di Fdrì, ci vedevo, mentre scrivevo, solo un lento passaggio verbale da un ambiente meno coltivato a un ambiente un po’ più coltivato.
Il padre di Via Gemito non arriva mai a ricevere dal figlio, che ne racconta le gesta, il nome con la grafia corretta, come se nella norma grafica, che lo addomesticherebbe, lui non potesse in nessun modo entrare. È uno dei tanti segnali di non riconciliazione. Ho tentato di rimediare mettendo in copertina un quadro del mio padre vero, che si firmava Federico Starnone e aveva grande talento.
Ha parlato di scuola e questo mi porta a parlare di attualità. Sul fatto che le scuole debbano essere aperte sono tutti d’accordo. Ma è diventata un’espressione ormai priva di senso. Come devono restare aperte invece? La didattica a distanza è solo extrema ratio?
Ritengo la scuola pubblica fondamentale e la didattica in presenza irrinunciabile. Ma le carte in tavola sono cambiate a tal punto, con la pandemia, che ci siamo tutti dimenticati di quanto eravamo scontenti del funzionamento della scuola prima del Covid. Cosa c’è, nella didattica a distanza?
La vecchia scuola con le sue insufficienze caso mai peggiorate o sperimentazioni che invece correggono difetti? Ci si dovrà lavorare sopra, dopo il Covid, come su tante altre cose. Intanto meglio la didattica a distanza, che il dilagare del contagio.
Dovremmo andare in letargo fino al vaccino?
Pare che anche il vaccino non ci libererà del virus se non in tempi lunghi. Forse bisogna convincersi che il vecchio modo di intendere la quotidianità è finito. Ma la vita no, e va riorganizzata al meglio.