Lo spettacolo grottesco ancora in scena alla Casa Bianca ci dice quale rischio mortale abbia corso davvero la democrazia americana, e in fondo ciascuno di noi. E anche quale rischio stiamo ancora correndo. Non tanto perché vi sia alcuna realistica possibilità che il presidente-suo-malgrado-uscente riesca a ribaltare l’esito del voto nei tribunali, o in subordine a scatenare una guerra civile di cui grazie al cielo non paiono esistere le premesse, non da ultimo per lo scatto di dignità mostrato dal sistema dell’informazione nel suo complesso, quando sin dalle lunghe notti dello spoglio si è rifiutato di legittimare il maldestro alzamiento trumpiano.
Il vero pericolo è dato dalle due cose insieme: la radicalizzazione dello scontro, condotto con ogni mezzo da Donald Trump, e la sua determinazione a proseguire la battaglia. Già si parla di una ricandidatura nel 2024, ma che sia lo stesso Trump a tentare la riscossa o che sia qualcun altro a farlo mentre lui finisce di spillare gli ultimi soldi ai gonzi con la scusa della battaglia legale, in fin dei conti, è meno importante. Quello che conta è la solidità e la durata di una simile piattaforma, tecnicamente sovversiva, su cui sembra essersi ormai attestato l’intero partito repubblicano.
Questo è l’aspetto che dovrebbe preoccuparci tutti, mentre osserviamo quanti autorevoli politici, giornalisti e intellettuali, anche in Italia, si sono mostrati disponibili a sostenere Trump persino in questa sua ultima disperata battaglia antidemocratica, antipolitica e antiaritmetica, mentre continua a lanciare cervellotiche accuse di brogli e cospirazioni internazionali ai suoi danni (in Pennsylvania il giudice, peraltro repubblicano, ha respinto il suo ricorso parlando di «argomentazioni giuridiche prive di fondamento», nonché di «accuse basate su congetture» e «non sostenute da prove»).
Dunque è importante domandarsi che cosa abbia permesso di sconfiggerlo, e quale lezione possiamo trarne anche noi.
Certo, il modo in cui ha risposto alla pandemia ha influito profondamente sull’esito del voto, ma nessuno lo obbligava a reagire in modo tanto sconsiderato (non ci voleva tanto a mostrare un filino in più di cautela e attenzione, anche volendo mantenere una posizione contraria a lockdown e restrizioni eccessive, anzi tanto più in una simile ottica). E poi, da che mondo è mondo, il modo in cui un presidente reagisce agli imprevisti, si tratti di attacchi terroristici, epidemie o crisi finanziarie globali, è parte integrante del programma d’esame. Certo hanno avuto un peso tutte le grandi questioni che hanno diviso la politica e la società americane, a cominciare dalla questione razziale, e ovviamente il modo in cui i democratici e Joe Biden in particolare hanno saputo interpretarle.
Io tendo però a pensare che una parte del merito vada riconosciuta all’argine eretto da tanti professionisti del mondo dell’informazione e della comunicazione, che mi pare abbiano fatto qualcosa di simile a quello che nel recente passato tanti loro colleghi hanno fatto in Francia – cioè in un paese, un sistema dell’informazione, un contesto politico e culturale diversissimi – dinanzi all’avanzata, allora apparentemente inarrestabile, del Front National di Marine Le Pen.
Ricordo ancora la prima volta che lessi in un sottopancia della Cnn un titolo che recitava: «President Trump falsely claims…» (se non vi sembra ci sia granché di strano, immaginatevi un telegiornale che titoli: «Il capo dello Stato sostiene mentendo che…»).
Se il delirio paragolpista di oggi è stato soffocato nelle pernacchie, e nemmeno i network più impegnati nella diffusione delle bufale trumpiane hanno voluto seguirlo fin lì, il merito è anche di chi in questi anni difficilissimi ha difeso il solco tra verità e menzogna, tra propaganda legittima e incitamento all’odio, tra battaglia politica e sovversione. Perché negli Stati Uniti c’erano la Fox e le tante voci della destra radicale, ma anche la Cnn e il New York Times.
Intendiamoci: non sto dicendo che la Cnn e il New York Times fossero i buoni e pertanto infallibili, non sto sostenendo che nella polemica non abbiano fatto ricorso ad argomenti discutibili, che non siano apparsi spesso anch’essi faziosi e parziali.
Sto parlando di uno specifico aspetto della questione, che riguarda le categorie, il linguaggio, il lessico, con cui la politica e le istituzioni vengono raccontate. Il mio sospetto, insomma, è che nei paesi che hanno saputo respingere l’ondata populista abbia avuto un peso decisivo una certa cultura democratica ancora presente in una parte consistente del mondo dell’informazione e della cultura, che non ha ceduto – nel suo complesso – al populismo, al sovversivismo e all’antipolitica.
Naturalmente la mia è solo un’impressione personale, e sinceramente spero anche di sbagliarmi. Perché altrimenti, se la ragione fosse proprio quella, mi pare chiaro che noialtri, qui in Italia, saremmo proprio fottuti.